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Ripubblichiamo l’articolo di Giovanni Rulli, uscito originariamente nella rubrica «Cronaca contemporanea» del quaderno 2828 del 20 aprile 1968, con il quale «La Civiltà Cattolica» diede conto dell’assassinio di Martin Luther King.
La sera del 4 aprile alcuni colpi di rivoltella raggiunsero il pastore negro americano Martin Luther King che, dal balcone di un albergo di Memphis, nel Tennessee (Usa), s’era chinato verso un ragazzo per raccomandargli di cantare e cantar bene, quella sera, l’inno Bless the Lord. Un’ora dopo l’attentato, il leader degli integrazionisti negri, apostolo della non violenza e premio Nobel 1964 per la pace, spirava nel vicino ospedale dove era stato subito trasportato.
La notizia della morte di quest’uomo che aveva dedicato la sua vita al progresso pacifico dei negri americani ispirandosi costantemente e senza alcun segno di stanchezza o di sfiducia alle indicazioni delle beatitudini evangeliche (il discorso della montagna era frequentemente, quasi alla lettera, sulle sue labbra) produsse in tutto il mondo un senso di sgomento e di raccapriccio.
Se ne resero interpreti uomini di governo e capi di religioni, intellettuali e gente del popolo, professionisti e lavoratori, cercando tutti di manifestare i loro sentimenti di riprovazione e di condanna per il gesto insensato del folle assassino e nello stesso tempo premendo perché il problema razziale negli Stati Uniti ricevesse finalmente quell’impulso definitivo verso la soluzione, capace di impedire almeno altre manifestazioni di violenza. L’assassinio di Luther King sembrava, infatti, non solo il gesto inconsulto di un singolo, ma anche il frutto di una situazione malata, di una società in lotta, di un odio esploso dopo aver covato a lungo nel cuore di troppa gente.
Fra le numerose espressioni di cordoglio e di profondo dolore che la morte di Martin Luther King suscitò nel mondo riportiamo quelle che nella stessa giornata di domenica 7 aprile, a distanza di poche ore l’una dall’altra, pronunciò con animo accorato il Santo Padre Paolo VI. La prima, al termine della lettura del Passio e dell’omelia che il Papa tenne nella basilica vaticana, davanti al sacro Collegio, ad alti dignitari della Cappella pontificia e a numeroso popolo: «Ed ora, fratelli e figli, noi non possiamo esimerci dal menzionare anche qui il triste ricordo che pesa sulla coscienza del mondo, della vile e atroce uccisione di Martin Luther King. Uniremo questo ricordo a quello del tragico racconto della passione di Cristo, che adesso abbiamo ascoltato. Noi abbiamo ricevuto in udienza, anni fa, questo predicatore cristiano della promozione umana e civile della sua gente negra in terra americana. Sapevamo dell’ardore della sua propaganda; ed anche noi osammo allora raccomandargli che essa fosse senza violenza ed intesa a stabilire fratellanza e cooperazione fra due stirpi, la bianca e la negra. Ed egli ci assicurò che appunto il suo metodo di propaganda non faceva uso di mezzi violenti, e che il suo intento era quello di favorire relazioni pacifiche ed amichevoli tra i figli delle due razze. Tanto più forte è perciò il nostro rammarico per la sua tragica morte, e tanto più viva è la nostra deplorazione per questo delitto. Siamo sicuri che voi, con tutta la Comunità cattolica di Roma e del mondo, condividete questi sentimenti. Come pure certamente saranno da tutti condivisi i voti che questo sangue spiritualmente prezioso ci ispira: possa l’esecrando delitto assumere valore di sacrificio; non odio, non vendetta, non nuovo abisso fra cittadini d’una stessa grande e nobile terra si faccia più profondo, ma un nuovo comune proposito di perdono, di pace, di riconciliazione nell’eguaglianza di liberi e giusti diritti s’imponga alle ingiuste discriminazioni e alle lotte presenti. Il nostro dolore si fa più grande e pauroso per le reazioni violente e disordinate, che il triste fatto ha provocate; ma la nostra speranza cresce altresì vedendo che da ogni parte responsabile e dal cuore del popolo sano cresce il desiderio e l’impegno di trarre dalla iniqua morte di Martin Luther King un effettivo superamento delle lotte razziali e di stabilire leggi e metodi di convivenza più conformi alla civiltà moderna e alla fratellanza cristiana. Piangendo, sperando, noi pregheremo affinché così sia» (Oss. Rom., 8-9 aprile 1968).
Poche ore dopo, affacciandosi alla finestra del suo appartamento e rivolgendo ai fedeli adunati in piazza S. Pietro alcune parole prima della recita dell’Angelus, Paolo VI, riferendosi al gesto con cui la folla lo salutava innalzando l’olivo che aveva ricevuto poco prima nella funzione della benedizione della palme, esclamò: «Ma il nostro gesto, prima di essere consolatore, ci fa sentire il dolore della pace ancora sanguinante nel mondo: nel Vietnam, nel Medio Oriente; in Africa, specialmente in Nigeria; e poi negli Stati Uniti di America, dove l’uccisione d’un inerme e cristiano profeta della integrazione razziale, Martin Luther King, denuncia un profondo e quasi implacabile conflitto di animi e di interessi. Ma l’olivo è ancora verde, anzi sembra aprirsi ad una primavera di aspirazioni e di promesse, che lasciano ancora sperare, ed oggi forse più che mai, nella vittoria della pace. Il nostro gesto si fa presagio, si fa preghiera, che la prossima Pasqua rende ardente e fiduciosa. Se Cristo è con noi, non dobbiamo mai disperare della pace; dobbiamo piuttosto attendere il prodigio che trasforma il dolore in redenzione, il sangue in amore. Non mancano indizi di questo prodigio; noi lo attendiamo, noi lo invochiamo» (Oss. Rom., cit.).
Profondamente commosso fu pure il messaggio diffuso dal Consiglio Mondiale delle Chiese e firmato dai segretari generali delle tre organizzazioni internazionali del Centro ecumenico di Ginevra: Eugene Carson Blake, André Appel, Marcel Pradervand: «Noi non possiamo misurare la perdita, la distruzione e la vergogna che oggi ci colpiscono. Martin Luther King era nostro collega, qui, e amico caro di molti… Il nostro primo pensiero non è per l’uomo di Stato, né per il profeta. Noi piangiamo, prima di tutto, l’uomo: brillante, coraggioso, amato… Per giudizio comune, il pastore King era il primo cittadino del mondo. Negli Stati Uniti, egli era la grande speranza di una nazione profondamente divisa. Per la Chiesa, egli era il servitore di Cristo, il più eminente nel suo paese. Per tutte le vittime dell’ingiustizia nel mondo, egli era l’animatore della campagna non violenta per la giustizia e per la pace».
«E ora — aggiungeva il messaggio del Consiglio mondiale — egli muore, vittima d’un atto di violenza. Una violenza demente che giustifica l’atteggiamento del pastore King; ma questo, oggi, è un ben misero conforto. Perché la violenza richiama la violenza; ma è la sua concezione della pace che potrà finalmente trionfare. In avvenire, forse, scopriremo il segno della provvidenza nella potenza esaltata di quest’uomo giovane divenuto un mito. Oggi noi siamo colpiti da questo subitaneo cambiamento della storia che sopraggiunge con la morte brutale di uno dei suoi principali artefici, e sentiamo una profonda inquietudine per il paese che ancora una volta ha dato vita a un eroe e poi l’ha assassinato» (cfr World Council of Churches, Information, 5 aprile 1968).
Questi sentimenti di dedizione per il risanamento morale del proprio paese erano spesso presenti anche nell’animo di King, che più d’una volta aveva accennato molto chiaramente a quella che gli sembrava esser la sua missione: «Ciò che conta nella vita di un uomo non è la longevità, ma la qualità, e nessuna morte potrebbe essere più redentrice di quella di colui che viene abbattuto mentre dà vita a un movimento destinato a salvare l’anima di una nazione».
L’assassinio di King scatenò negli Stati Uniti le forze peggiori; non appena si diffuse la notizia della sua morte in molte città americane si determinò un vero stato d’assedio da parte della popolazione di colore con disordini, saccheggi, distruzioni, incendi e, purtroppo, anche morti e feriti fra la popolazione; tanto che il presidente Johnson si vide costretto ad annullare il viaggio ad Honolulu programmato per un incontro fra vari responsabili nella guerra del Vietnam dopo l’annuncio della sospensione dei bombardamenti nel nord e del ritiro della sua candidatura per la presidenza degli Stati Uniti e a ordinare l’intervento della guardia nazionale per controllare le manifestazioni e i tumulti dei negri. In molte città, come a Washington e nel distretto della Columbia, dove più esasperate si rivelarono le dimostrazioni, fu stabilito il coprifuoco, mentre alcuni capi estremisti, come Stokely Carmichael, sostenitore del «potere negro», incitavano all’odio e alla vendetta indicando perfino la strategia da usare contro i bianchi: «abbiamo detto ai giovani, affermava Carmichael, che se non dispongono di armi, non permetteremo loro di andare a lanciare sassi e bottiglie contro le armi. Quando disporremo di armi, permetteremo loro di scendere nelle strade».
In questa maniera ignobile e irresponsabile si tentava di onorare la memoria di chi, vissuto fra stenti e dolori e amarezze, aveva speso la sua vita per predicare l’amore fra gli uomini senza distinzione di razza o di colore; un insegnamento che era talmente penetrato nel cuore della gente che, alla notizia della morte, la moglie ebbe spontaneo e chiaro il suo atto di rassegnazione cristiana espresso con le parole: «questa è la volontà del Signore».
Del resto, non possiamo fare a meno dal riportare le ultime parole pronunciate dal pastore immolato proprio a Memphis la sera stessa del suo assassinio poco dopo il suo arrivo in questa città: «Sono arrivato a Memphis, e qualcuno ha cominciato a parlare di minacce e di chiacchiere circa minacce nei miei confronti, di quello che mi sarebbe accaduto per mano di qualche fratello bianco malato. Bene, non so quello che accadrà ora. Certo, avremo dei giorni difficili, ma non mi preoccupo per me. Come ognuno, vorrei vivere una vita lunga; la longevità ha la sua importanza, ma di ciò ora non mi preoccupo. Farò quello che Dio vorrà. Se Lui mi permetterà di andare in cima alla montagna, vi andrò. Ho visto la terra promessa. È probabile che non la raggiunga come voi, ma voglio che sappiate questa sera che noi come popolo arriveremo alla terra promessa. Questa sera noi siamo felici. Io non sono preoccupato di nulla, non temo nessuno. I miei occhi hanno visto la gloria del Signore che arriva».