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A Roma, durante la conferenza “La cultura dell’incontro: un imperativo per un mondo diviso”, (27-28 maggio 2022), il segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, mons. Paul Gallagher, ha tenuto la relazione conclusiva della prima giornata dei lavori. Ecco la traduzione del testo integrale del suo intervento, pronunciato originariamente in lingua inglese.
Introduzione
Sono molto grato per questo invito a riflettere insieme sul rapporto tra governance globale e cultura dell’incontro, alla luce dell’insegnamento di Papa Francesco. Fin dall’inizio del suo pontificato, il Santo Padre ci ha incoraggiati a scorgere nel dialogo la via principale per portare il messaggio evangelico di pace nella nostra vita quotidiana e nelle relazioni internazionali. La stessa parola «incontro» rinvia all’interazione tra diplomazia, governance globale e ricerca della pace. Così lo spiega il Papa: «Nell’incontro c’è sempre un movimento. Se tutti stiamo fermi, non ci si incontra mai. “La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita” (Fratelli tutti, 215). Ma la vita è questo: l’arte dell’incontro. È come l’ossigeno della vita l’incontro. Per questo abbiamo bisogno di una cultura dell’incontro, perché “come popolo ci appassiona il volerci incontrare, il cercare punti di contatto, gettare ponti, progettare qualcosa che coinvolga tutti” (FT 216)»[2].
Educare alla cultura dell’incontro significa educare all’arte del movimento verso la pace, «tirando fuori» le persone, le nazioni, i popoli dalla spirale della guerra, del rancore e dell’odio, per portarli sulla strada del dialogo e della ricerca del bene comune. In questa prospettiva, attraverso la cultura dell’incontro la Chiesa non cerca di limitarsi a istruire qualcuno sul tema della «relazione», ma si impegna a far crescere le persone, coinvolgendo tanto la sfera intellettuale quanto, soprattutto, quella morale e sociale dei rapporti e delle decisioni quotidiane per la pace.
La questione della cultura dell’incontro e dei rapporti tra governance globale e giustizia, intesa come realizzazione della carità nella verità, segna profondamente sin dalle origini tutto lo svolgersi della vita stessa della comunità internazionale, in quanto si pone come questione di fondo ogniqualvolta, nel corso della storia, i conflitti minano le basi delle relazioni sociali e delle funzioni dell’umano consorzio.
Nonostante questo, dobbiamo ammettere che oggi viviamo in un mondo che è sempre meno governato dalla cultura dell’incontro, poiché la mentalità contemporanea sembra prediligere lo scontro e la logica del più forte, dimenticando la carità e la giustizia. Agendo in questo modo, però, il nostro mondo sta morendo per il suo egoismo, per la frenesia del profitto: muore per aver tradito la giustizia e soprattutto la carità, il dono di sé. Proprio per questo Papa Francesco, nel suo primo Messaggio per la Giornata mondiale per la pace, invitava il mondo a superare la «cultura dello scarto» e a sviluppare la «cultura dell’incontro», a contrapporre alla globalizzazione dell’indifferenza la globalizzazione della fraternità, alla frammentazione dei nuclei familiari la loro ricomposizione su scala mondiale nell’unica e indissolubile famiglia umana[3].
La cultura dell’incontro è perciò intrinseca alla natura stessa dell’uomo, che non vive in solitudine, ma è un essere naturalmente sociale, è un essere con gli altri. Pertanto, nel rapporto sociale degli uomini e nella governance globale, che rivela ciò che sta alla base delle relazioni tra nazioni, è necessario considerare due attitudini che rendono le relazioni più vere e più umane: esse sono la carità-amicizia e la giustizia-diritto: se la carità (o amicizia) è la forza di comunione, di unificazione, di fraternità, la giustizia (o diritto) è la virtù dell’alterità, per cui ci mantiene nella giusta vicinanza con chi ci è prossimo.
La giustizia-diritto è il rispetto della dignità, dei diritti altrui; nella società è necessaria affinché si rispetti nell’altro ciò che è suo e si conceda a ciascuno il suo: unicuique suum. In questo senso i rapporti di giustizia sociale sono fondati sulle esigenze necessarie della persona umana, affinché si procurino a tutti i mezzi necessari per vivere, e per vivere in un modo degno dell’uomo.
La carità-amicizia, come virtù naturale, è benevolenza, amore, che vede nell’altro un alter ego, per il quale si desidera tutto il bene che si vorrebbe per sé stessi; in questo senso si ha un movimento esistenziale orientato in direzione del bene integrale, nella misura del possibile, di tutte le persone costituenti la comunità sociale. La carità, dunque, vuole che a ogni membro della comunità i fratelli sovvengano per quanto possono perché divenga più uomo, perché attui in sé pienamente quella dignità e quei doni dei quali è portatore.
Così quando studiamo le relazioni umane o internazionali solo sulla base dei diritti e si organizza tutta la convivenza umana solo nella regolazione di ciò che a ciascuno è dovuto, non si può sfuggire dall’impressione che venga dimenticato il valore essenziale della carità. Per realizzare pienamente una cultura dell’incontro è perciò necessario strutturare i processi della comunità internazionale attraverso i binari della giustizia-diritto e della carità-amicizia, in modo che il diritto positivo tenda alla giustizia e porti alla carità e alla pace, così come l’Aquinate insegnava, e cioè che opus iustitiae pax[4].
Un vero incontro, un’autentica relazione tra le persone e tra le nazioni può realizzarsi solo al livello della carità e del riconoscimento della dignità fondamentale di ogni persona. La giustizia, cioè il rispetto dei diritti degli altri, è solo una fase preparatoria; come diceva san Paolo VI, è la «minima misura della carità»[5], necessaria perché ciascuno possa avere modo di vivere e di realizzarsi nell’incontro: incontro con la vita, incontro con gli altri e incontro con Dio.
Si può dire, quindi, che la cultura dell’incontro abbia le seguenti caratteristiche:
- Incoraggia a guardare al mondo con un atteggiamento di apertura. Questo significa fare propri i valori e le virtù di tutte le persone, comprese le tradizioni e le buone intenzioni dei nostri nemici, rispettando il bene ovunque si trovi.
- È costruttiva. Non predica il conflitto, ma invita ciascuno a prendersi cura del prossimo, considerando gli altri come fratelli e sorelle[6].
- Aiuta a creare il futuro. L’incontro è al centro di tutta l’etica sociale, la scienza che regola e assicura rapporti pacifici tra individui e Stati, poiché soltanto se lo praticano essi sono ispirati ad avanzare verso il progresso e la perfezione. La cultura dell’incontro può quindi essere considerata come uno stimolo per la creazione di una società pacifica, in cui sussistano le condizioni necessarie per concepire un futuro migliore.
- È una garanzia di equilibrio. L’interpretazione del diritto richiede equità, per trovare il punto in cui convergono diritti e privilegi diversi e per focalizzare scenari in cui individui e gruppi possano raggiungere i propri obiettivi nel rispetto reciproco.
- Si fonda sulla carità. La cultura dell’incontro deve necessariamente fondarsi su un’unità interiore capace di conciliare le differenze nella carità e di costruire relazioni alla luce della comprensione e del sostegno reciproci.
L’uomo è «naturaliter socialis»
Esplorare l’idea di Papa Francesco della cultura dell’incontro e la sua rilevanza pratica nell’area della diplomazia e della governance globale, mi porta a ripensare come le quotidiane iniziative della Santa Sede in campo internazionale abbiano l’obiettivo di imprimere uno stile alla qualità della vita del mondo, contribuendo, come ricorda Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, a porre solide basi per avviare processi di guarigione. L’incontro, infatti, non può essere fondato su diplomazie vuote, discorsi doppi, occultamenti, maniere. Solamente dalla verità dei fatti può nascere lo sforzo di comprendersi a vicenda e di trovare una sintesi per il bene di tutti (FT 225-226).
Al cuore della cultura dell’incontro, così come ripete più volte Papa Francesco, troviamo la persona, considerata nel suo essere-verso, essere per una comunione e un’apertura verso l’altro, con la conseguenza che ogni relazione che escluda un solo altro risulta non autentica. Tale prospettiva propriamente cristiana, che dice anche il senso della comunità delle nazioni, è stata descritta da san Tommaso d’Aquino in questi termini: «L’amore di Dio è unitivo, perché conduce l’affetto umano dal molteplice all’unità […], invece l’amor proprio disgrega l’affetto umano verso cose disparate»[7]. In questo senso l’uomo scopre attraverso l’incontro la sua identità che è, appunto, naturaliter socialis, in quanto:
- come individuo, l’essere umano è un essere con bisogni, poiché, sia sul piano economico che su quello delle attività, l’uomo non trova in sé gli elementi per il suo perfezionamento e presenta una insufficienza congenita che esige una collaborazione costante non per vivere bene, ma anche solo per vivere. Queste necessità inclinano l’uomo verso la società e lo Stato.
- Come persona, l’essere umano è un tutto aperto e generoso, che non ama veramente fino a quando non ama davvero un altro. Quindi la persona è aperta all’incontro sia sul piano volitivo della relazione che su quello dell’azione. La persona tende di per sé stessa a comunicare con gli altri, in un’alterità fondamentale, ad aprirsi alla scoperta, a intrecciare veri e propri vincoli sociali, in un dialogo specificamente umano. Già Aristotele aveva affermato che «l’uomo per natura è un animale politico [socievole], e colui che non ha bisogno di partecipare alla vita civile o non sa risolversi a restare con gli altri uomini non può essere che un dio o una belva»[8].
Partendo da queste riflessioni, possiamo indicare tre raccomandazioni, attraverso le quali la Santa Sede, nel suo agire quotidiano, opera in favore di una crescita della cultura dell’incontro nelle dinamiche della governance globale:
- Le istituzioni sono a servizio dell’uomo e della famiglia dei popoli per contribuire al bene comune universale.
- Prendere decisioni nella certezza che i diritti e i doveri dell’uomo e i grandi valori della dignità della persona, della giustizia e della pace, siano radicati nell’ordine delle cose e non dipendano solo da un voto assembleare. Questo auspicio permette di non ridurre le diverse iniziative della comunità internazionale a una serie di interventi legati a singole necessità, ma porta a un’assunzione sempre più responsabile del dovere di proteggere la dignità umana e la pace tra le nazioni.
- Coltivare il valore della trascendente dignità della persona: solo riconoscendo la vera natura dell’uomo si potrà operare in suo favore. «È importante, pertanto, che gli organismi internazionali non perdano di vista il fondamento naturale dei diritti dell’uomo. Ciò li sottrarrà al rischio, purtroppo sempre latente, di scivolare verso una loro interpretazione solo positivistica. Se ciò accadesse, gli organismi internazionali risulterebbero carenti dell’autorevolezza necessaria per svolgere il ruolo di difensori dei diritti fondamentali della persona e dei popoli, principale giustificazione del loro stesso esistere ed operare»[9].
La cultura dell’incontro è il fondamento della società, in quanto la società civile è una società di persone. Presuppone quindi che la persona, la quale, per dirla con Antonio Rosmini, è un «diritto umano sussistente»[10], non sia mai trattata come un mero mezzo, ma sempre come un fine. Le persone posseggono in sé il loro fine, poiché sono create a immagine e somiglianza di Dio.
Possiamo concludere questa prima parte delle nostre riflessioni ripetendo che solo attraverso gli sforzi quotidiani per diffondere una cultura dell’incontro possiamo assicurare a tutti un futuro migliore e promuovere un rispetto autentico della dignità umana.
«Se non riesci a dare il superfluo al fratello, come potrai dare per lui la tua vita?»[11]
Nel cinquantesimo anniversario della creazione delle Nazioni Unite, l’allora Segretario generale, Boutros Boutros-Ghali, affermò che i cambiamenti degli ultimi anni avevano portato a un crescente apprezzamento del fatto che «mai prima d’ora tante persone coraggiose si sono impegnate a migliorare il mondo. Mai prima d’ora le nazioni hanno riconosciuto così chiaramente che il loro destino è legato l’uno all’altro. E mai prima d’ora è stato così innegabile che le istituzioni internazionali di cooperazione – e in primo luogo le Nazioni Unite – sono vantaggiose per tutti e costituiscono una vitale necessità globale»[12].
In questo contesto, la Santa Sede, attraverso la sua attività diplomatica, prende parte a organizzazioni internazionali, partecipa a conferenze internazionali, coopera all’elaborazione della regolamentazione internazionale e promuove il riconoscimento della dignità umana, della pace e della concordia tra le nazioni. Anche per questo, accanto alla più tradizionale sfera della diplomazia bilaterale, la Santa Sede ha sempre partecipato attivamente alla diplomazia multilaterale.
Papa Francesco ha ribadito questo impegno nel suo discorso ai membri dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. In quella circostanza il Papa ha osservato che «lo sviluppo umano integrale e il pieno esercizio della dignità umana non possono essere imposti. Devono essere costruiti e realizzati da ciascuno, da ciascuna famiglia, in comunione con gli altri esseri umani e in una giusta relazione con tutti gli ambienti nei quali si sviluppa la socialità umana». Ha inoltre affermato che «senza il riconoscimento di alcuni limiti etici naturali insormontabili e senza l’immediata attuazione di quei pilastri dello sviluppo umano integrale, l’ideale di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” (Carta delle Nazioni Unite, Preambolo) e di “promuovere il progresso sociale e un più elevato livello di vita all’interno di una più ampia libertà” (ibid.) corre il rischio di diventare un miraggio irraggiungibile o, peggio ancora, parole vuote che servono come scusa per qualsiasi abuso e corruzione, o per promuovere una colonizzazione ideologica mediante l’imposizione di modelli e stili di vita anomali estranei all’identità dei popoli e, in ultima analisi, irresponsabili»[13].
Se l’educazione è la via della pace, la dignità umana e la cultura dell’incontro sono il fulcro degli sforzi diplomatici per promuoverla. Occorre, naturalmente, tenere presente che la «dignità» umana, sotto tutti i suoi molteplici aspetti, è stata a lungo oggetto di acceso dibattito; al proposito sono stati scritti centinaia di monografie e saggi da studiosi di tutte le discipline sociali, dall’antropologia alla bioetica, dalla filosofia alla teoria generale del diritto, al diritto costituzionale e al diritto internazionale. Tuttavia, nella letteratura divulgativa, sui media e sui siti web, il termine è usato sempre più spesso soprattutto nelle sue connotazioni sociali ed etiche. Ormai nessuno dubita che la «dignità» sia un «valore» – con tutto il peso insito nel termine –, anche se il suo significato è necessariamente relativo e mutevole nel tempo, nello spazio, nella memoria, nella maniera in cui si sceglie di presentarlo.
Per questo papa Francesco ha affermato che il principio che «ogni essere umano possiede una dignità inalienabile» è «una verità corrispondente alla natura umana al di là di qualsiasi cambiamento culturale» (FT 213). Questa inequivocabile lettura della realtà mostra quanto sia oggettivamente necessario ribadire che «il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale» (FT 211).
Ne consegue che la cultura dell’incontro non può fermarsi alla filantropia. L’incontro è più che un mero gesto di amicizia. Il suo contenuto è molto più ricco: è vicinanza a Dio, attestata dall’amore per il prossimo, e fondamento spirituale di giuste relazioni. Forse possiamo individuare una ragione del fatto che il mondo moderno, dominato dalla globalizzazione, abbia spesso tradito la giustizia, proprio nell’intento ricorrente di rimpiazzare la cultura dell’incontro con la filantropia, ovvero, come ha osservato François-René de Chateaubriand, con quella singolare forma di fraternità che ignora la «paternità». La filantropia, come esprime l’etimologia stessa della parola, è mossa dall’amore per l’umanità, a motivarla sono la compassione umanitaria e il desiderio di curare i mali materiali attraverso l’eliminazione delle disparità economiche. Questa idea di solidarietà umanistica, con la conseguente visione delle relazioni umane, porta a uno stato sociale in cui la socializzazione può fare grandi progressi, eppure in esso la comunione si allontana sempre più, l’amicizia diventa sempre più difficile e la solidarietà pratica fatica a trovare posto, se non sporadicamente o come frutto di impulsi emotivi.
Certamente la solidarietà sociale presuppone la giustizia. La cultura dell’incontro proposta da papa Francesco, però, non si basa solo su istanze sociali spesso confuse con interessi privati; radica invece nella carità cristiana e nel significato vitale della solidarietà che il Vangelo riassume nella Regola d’oro: fa’ agli altri quanto vorresti che gli altri facessero a te. Senza questo equilibrio di carità, tutte le lotte sociali, economiche e politiche, pur se orientate a un fine giusto, avveleneranno i rapporti umani. La cultura dell’incontro si propone di trasformare i disaccordi e i conflitti della società odierna in maniera tale che la fraternità e la carità subentrino all’odio. Non è necessario addentrarsi in studi specialistici per sapere che la psicologia moderna ha scoperto la necessità di inaugurare o di ristabilire in ogni settore della vita sociale relazioni umane ispirate al rispetto della dignità della persona umana. Gli esseri umani hanno bisogno di rispetto non meno che di cibo, e il rispetto reciproco è la prima forma di amore, perché riconosce il valore intrinseco dell’altro come persona creata a immagine di Dio. Lattanzio, un autore del IV secolo, aveva chiaro questo assioma: «Alla base della società c’è la comunione, ovvero il principio secondo cui diamo per ricevere a nostra volta»[14]. Solo quando sono legati da un intento comune, gli esseri umani costituiscono una vera comunità umana.
La società umana non s’instaura né prospera all’ombra della paura, ma alla luce dell’amore. In definitiva, ogni legge, ogni ordinamento giuridico-politico si basano sui rapporti morali tra gli individui. Il più elementare contratto tra esseri umani presuppone la volontà, ispirata dalla carità verso il prossimo, di rimanere fedeli agli impegni assunti. Infatti dalla carità, come dice sant’Agostino, «nascono i doveri nei confronti della comunità umana»[15].
In sostanza, possiamo dire che l’«incontro», come una certa forma di amicizia e di carità, è anteriore al diritto, in quanto quest’ultimo è preceduto, accompagnato e seguito dall’amicizia, e ciò che potrebbe apparire a prima vista come una contrapposizione tra incontro-amicizia e diritto si risolve nell’unione armoniosa di queste due esigenze. Il diritto positivo sorge infatti soltanto quando vi siano le minime condizioni sociali: una esistenza comunitaria basata sul rispetto della vita e dei beni altrui, sulla fedeltà agli obblighi assunti e su altri elementi fondamentali della vita sociale.
Non basta, quindi, aspirare alla giustizia; occorre anche una cultura dell’incontro, perché senza relazione gli esseri umani non riusciranno mai a superare quel grado di incertezza che inevitabilmente è presente in ogni scambio. Se vogliamo la pace, dobbiamo riconoscere che essa deve poggiare su basi più solide rispetto alle non-relazioni, o alle relazioni meramente culturali o economiche. La vera pace deve fondarsi sulla giustizia, sulla dignità umana di ciascun individuo, sul riconoscimento dell’uguaglianza delle persone, sul rispetto della carità dovuta a ciascuno[16].
L’enfasi posta da papa Francesco sul necessario sviluppo della cultura della pace si deve alla consapevolezza del fatto che una delle cause più profonde della grave crisi che oggi sconvolge il nostro mondo, e ne mette a repentaglio il futuro, deriva dal fatto che il progetto di costruire insieme il futuro è spesso accettato a parole, ma viene seguito e applicato a malapena. La base ultima della pace è la capacità di scorgere nelle altre persone nostri uguali, nostri fratelli e sorelle, figli e figlie dello stesso Padre, di cui abbiamo bisogno per lo sviluppo della nostra personalità non meno di quanto a loro volta hanno bisogno di noi. Quando nella comunità delle nazioni manca una cultura dell’incontro, gli individui e i gruppi più forti si prendono tutto lo spazio ed emarginano i più deboli, accrescendo quelle tensioni che sono all’origine del risentimento e della guerra. Di conseguenza, alla società manca la pace perché manca la carità: poiché vi dominano l’egocentrismo e il narcisismo, non è aperta ai problemi degli altri. «Senza amore», ha scritto Roger Garaudy, «un individuo o una società possono funzionare, ma non possono esistere»[17].
All’inizio di questo intervento ho delineato alcuni dei lineamenti che compongono il ritratto di una cultura dell’incontro. Desidero ora elencare certi principi essenziali che guidano e supportano la costruzione di quella cultura:
- La cultura dell’incontro è un’esigenza di giustizia. Creare una relazione significa prima di tutto rendere piena giustizia al prossimo. Chi desidera essere caritatevole, dev’essere innanzitutto giusto.
- La cultura dell’incontro incita a un’azione efficace. Non basta nutrire buoni sentimenti verso chi ci sta attorno; dobbiamo fare qualcosa per costoro. In altre parole, per costruire una cultura dell’incontro non ci si può fermare al livello affettivo, ma occorre passare a quello dell’azione effettiva. La fraternità non si dimostra solo con la benevolenza, ma con buone azioni che abbracciano la giustizia, perché il nostro incontro avviene con un prossimo che ha bisogni reali, anche quando non corrispondano in senso stretto a diritti.
- Nella presente era dei diritti la cultura dell’incontro è un richiamo alla responsabilità. Gli individui e le società devono individuare modi per coltivare relazioni autentiche e sincere, tenendo conto delle situazioni storiche concrete.
- La cultura dell’incontro favorisce la creatività. Incontrando gli altri, giungiamo a scoprire nuovi bisogni che richiedono nuove soluzioni e nuovi modi di vedere le cose.
- La cultura dell’incontro è un forte incentivo al perdono. Questo è il suo aspetto più distintivo e, allo stesso tempo, più esigente. Di conseguenza, se non si vuole snaturare la missione dell’incontro, le relazioni devono essere animate dalla misericordia[18], affinché la legge, temperata dalla carità, prevalga sempre[19].
Conclusione
Il costante cambiamento della condizione umana e delle dinamiche delle nostre relazioni ci costringe a cambiare radicalmente il modo in cui vediamo il mondo. Per orientarci, dobbiamo interrogarci sul futuro, che, attraverso le spinte combinate della scienza, della tecnologia e dell’economia, ci sta spingendo verso un’umanità che seppure è «aumentata», non è in alcun modo migliorata[20].
Il mondo è attraversato da instabilità, incertezze e dalla paura strisciante che possa scatenarsi una «guerra globale». È necessario perciò, più che mai, orientarsi verso la cultura dell’incontro che Papa Francesco indica come binario in cui comprendere adeguatamente l’avvenire della comunità internazionale e dell’umanità. Come egli ha affermato, «dialogo e fraternità sono i due fuochi essenziali per superare le crisi del momento presente. Tuttavia, “nonostante i molteplici sforzi mirati al dialogo costruttivo tra le nazioni, si amplifica l’assordante rumore di guerre e conflitti”, e tutta la comunità internazionale deve interrogarsi sull’urgenza di trovare soluzioni a scontri interminabili, che talvolta assumono il volto di vere e proprie guerre per procura»[21].
Di conseguenza, è importante che ci poniamo a riesaminare le nostre idee di progresso, crescita e globalizzazione da un punto di vista più ampio e complesso. Ne seguirà che ci sforzeremo di misurare la crescita non nei termini puramente quantitativi del PIL, bensì aggiungendo indicatori che tengano in considerazione la dignità e lo sviluppo umano. Dobbiamo riconsiderare e apprezzare più pienamente l’irriducibilità e la complessità dei legami che connettono Stati, nazioni e persone. Solo se le comprendiamo saremo in grado di elaborare nuovi meccanismi politici e istituzionali che siano più consoni alle complesse identità degli individui e delle collettività. La comunità internazionale si è dimostrata capace di disinnescare numerosi conflitti storici proprio perché, in parte, le sue istituzioni sono state plasmate da un ripensamento della natura delle identità e dei territori nazionali. Nonostante questi sforzi, si sente parlare dell’implosione del sistema multilaterale e della comunità delle nazioni. Dobbiamo essere pessimisti?
La risposta dev’essere all’altezza del pericolo. Ci troviamo nel mezzo di uno scontro di cui non possiamo prevedere l’esito. Che cosa nascerà? Un mondo disintegrato, il campo di battaglia per la colonizzazione da parte di vecchi e nuovi superpoteri, o un mondo finalmente riunito? Nessuno può sottrarsi a questa scelta. Nessuno è al sicuro, tanto meno è esentato dalla responsabilità di plasmare il futuro proprio e degli altri.
Oggi più che mai, la gestione di enormi problemi nazionali e sovranazionali richiede lungimiranza, orizzonti culturali vasti e consapevolezza della nuova condizione umana globale. Eppure, oggi più che mai, la politica sembra prediligere una classe dirigente animata da una visione ristretta, legata a miopi tattiche di autoconservazione, in una condizione di degrado morale e materiale. Se non si affronta questa drammatica crisi della cultura, sarà impossibile rigenerare la democrazia e ridare sostanza e credibilità alla politica. Per questo Papa Francesco insiste sull’importanza della cultura dell’incontro: un futuro più luminoso potrà profilarsi solo se nascerà dalla consapevolezza del destino comune che oggi lega tutti gli individui e i popoli della terra, l’umanità intera. Tale riconoscimento richiede un profondo cambiamento di prospettiva, che porti a respingere l’opposizione tra diversità e identità, tra unità e molteplicità, e conduca tutti noi a sentirci chiamati a un maggior grado di responsabilità.
Non abbiamo altra scelta. La nostra stessa interdipendenza dovrebbe proiettarci verso nuovi sforzi per creare una civiltà basata sulla convivenza e sulla pace. Questo compito si staglia davanti a noi come necessario, davvero ineluttabile. Richiede creatività nell’affrontare la sfida che, in questo tempo di guerra, ci attende: quella di aiutare l’umanità a ritrovare la via della comprensione e della comunione[22].
Concludo questo intervento citando il messaggio di Papa Francesco nel settantacinquesimo anniversario delle Nazioni Unite. Le sue sono parole di speranza, ma allo stesso tempo formulano un appello a costruire un futuro migliore per il nostro mondo: «Ci troviamo quindi di fronte alla scelta tra uno dei due cammini possibili: uno conduce al rafforzamento del multilateralismo, espressione di una rinnovata corresponsabilità mondiale, di una solidarietà fondata sulla giustizia e sul compimento della pace e l’unità della famiglia umana, progetto di Dio per il mondo; l’altro predilige gli atteggiamenti di autosufficienza, il nazionalismo, il protezionismo, l’individualismo e l’isolamento, escludendo i più poveri, i più vulnerabili, gli abitanti delle periferie esistenziali. E certamente recherà danno alla comunità intera, essendo autolesionismo per tutti. E questo non deve prevalere. […] Da una crisi non si esce uguali: o ne usciamo migliori o peggiori. Perciò, in questo momento critico, il nostro dovere è di ripensare il futuro della nostra casa comune e del nostro progetto comune. È un compito complesso, che richiede onestà e coerenza nel dialogo, al fine di migliorare il multilateralismo e la cooperazione tra gli Stati. Questa crisi sottolinea ulteriormente i limiti della nostra autosufficienza e comune fragilità e ci induce a dichiarare esplicitamente come vogliamo uscirne: migliori o peggiori. Perché, ripeto, da una crisi non si esce uguali: o ne usciamo migliori o ne usciamo peggiori»[23].
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[1] Alcuni stralci di questo testo sono già apparsi in L’Osservatore Romano, 28 maggio 2022.
[2] Francesco, Discorso ai membri dell’Associazione Santi Pietro e Paolo, 8 gennaio 2022.
[3] Francesco, Messaggio per la celebrazione della XLVII Giornata mondiale della pace, 1° gennaio 2014.
[4] Cfr San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 29, a. 3, dove cita Is 32,17.
[5] Paolo VI, Santa Messa per la «Giornata dello sviluppo», Bogotá, 23 agosto 1968.
[6] Cfr I. Giordani, La società cristiana, Pisa, Salesiana, 1942, 99-100; Id., Il messaggio sociale del cristianesimo, Roma, Intercontinental Book & Publishing, 1958, 96-114.
[7] San Tommaso d’Aquino, op. cit., I-II, q. 73, a.1, ad 3.
[8] Aristotele, Politica, I, 1,2, 1253 a.
[9] Benedetto XVI, Messaggio per la celebrazione della XL Giornata mondiale della pace, 1° gennaio 2007, 13.
[10] A. Rosmini, Filosofia del diritto, a cura di R. Orecchia, vol. I, Padova, Cedam, 1967, p. 191.
[11] Sant’Agostino, In Epistolam Ioannis ad Parhos tractatus decem, V, 12.
[12] B. Boutros-Ghali, Report of the Secretary-General on the Work of the Organization, 1995, Conclusione (cfr digitallibrary.un.org/record/184656).
[13] Francesco, Incontro con i membri dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, New York, 25 settembre 2015.
[14] Lattanzio, De divinis institutionibus, VI, 10.
[15] Sant’Agostino, De moribus Ecclesiae Catholicae, I, 26, 49.
[16] Cfr Paolo VI, Messaggio per la celebrazione della IV Giornata mondiale della pace, 1° gennaio 1971.
[17] R. Garaudy, Parole d’homme, Parigi, France Loisirs, 1975, p. 37.
[18] Cfr. Paolo VI, Discorso al Tribunale della Sacra Romana Rota per l’apertura del nuovo anno giudiziario, 8 febbraio 1973.
[19] Cfr. R. Pizzorni, Giustizia e carità, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1995.
[20] E. Morin, Prefazione a M. Ceruti, Il tempo della complessità, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2018.
[21] Francesco, Discorso ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 10 gennaio 2022.
[22] Cfr. M. Cannata, Nel mondo interconnesso la fraternità può rifondare la geopolitica: a colloquio con Mauro Ceruti, in L’Eurispes.it, 17 gennaio 2022.
[23] Francesco, Videomessaggio in occasione della 75.ma Sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 25 settembre 2020.