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«Sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote», cantava Dante nella Divina Commedia (Inf. XI, 105), in un tempo in cui la societas christiana del Medioevo aveva realizzato quasi un perfetto connubio tra arte e fede, tra espressione artistica ed esperienza religiosa. Come la natura creata — secondo la visione biblica e cristiana — è in certo senso «figlia» di Dio creatore, così l’arte umana, che segue la natura e a lei s’ispira, è quasi «nipote di Dio». Secoli dopo, passata sull’Europa cristiana l’ondata «iconoclasta» del protestantesimo, che, con Lutero, aveva «distrutto le sale dorate del mito e al loro posto aveva messo il misero tabernacolo del deserto» (G. Nebel), l’archeologo tedesco e storico dell’arte Johann J. Winckelmann (1717-68) affermava: «Chi ama il bello si dirigerà verso Roma», vista, con nostalgia, come modello classico della bellezza.
E proprio da Roma, in questo tornante di secolo e di millennio, giunge al mondo moderno dell’arte e degli artisti un messaggio sia di chiara stima del loro lavoro sia di forte auspicio per una nuova simbiosi o armonia tra ispirazione artistica ed esperienza di fede, in una parola tra arte e fede cristiana. Intendiamo riferirci alla Lettera che Giovanni Paolo II ha recentemente scritto agli artisti: «A quanti con appassionata dedizione cercano nuove “epifanie” della bellezza per farne dono al mondo nella creazione artistica»[1]. Questa è la dedica della Lettera, che pone in esergo la citazione del libro della Genesi, ossia del più antico racconto biblico della creazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1,31). La Lettera si chiude citando una celebre intuizione di F. Dostoevskij, il quale, nel romanzo L’idiota, affermava: «La bellezza salverà il mondo».
La «Lettera agli artisti»
La Lettera reca la data significativa del 4 aprile 1999, Pasqua di Risurrezione. Sulla scia delle lettere già indirizzate da Giovanni Paolo II a determinati gruppi sociali, come le famiglie, le donne, i bambini e i lavoratori, in quest’ultimo scritto egli si rivolge in forma colloquiale agli artisti. Nella voce «artisti» sono inclusi tutti coloro che avvertono in sé una sorta di «scintilla divina», com’è proprio della vocazione artistica di poeti, scrittori, pittori, scultori, architetti, musicisti, attori ecc. (n. 4). Essi sono designati con diversi nomi o immagini: «geniali costruttori di bellezza», «avvinti dallo stupore per il potere arcano» dell’essere, soggetti che avvertono «l’eco del mistero della creazione di Dio», artefici nei quali si rispecchia l’immagine di Dio creatore (n. 1)[2].
La forma dialogale è espressa sin dall’inizio, quando il Papa, accennando anche alla sua personale esperienza di giovane attore e scrittore, afferma: «A voi […] mi sento legato da esperienze che risalgono molto indietro nel tempo e hanno segnato indelebilmente la mia vita. Con questo scritto intendo mettermi sulla strada di quel fecondo colloquio della Chiesa con gli artisti che in duemila anni di storia non si è mai interrotto, e si prospetta ancora ricco di frutto alle soglie del terzo millennio. In realtà, si tratta di un dialogo non dettato da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell’essenza stessa sia dell’esperienza religiosa sia della creazione artistica» (n. 1). E più avanti, poco prima di ripercorrere l’intero arco del rapporto tra arte e Vangelo come è stato vissuto ed espresso nei 20 secoli di storia del cristianesimo, Giovanni Paolo II afferma ancora: «Ogni forma autentica d’arte è, a suo modo, una via di accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo» e costituisce anche «un approccio molto valido all’orizzonte della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta» (n. 6).
Queste espressioni danno già una prima idea globale del tono confidenziale e dell’orizzonte, teologico e culturale, in cui si muove la Lettera di Giovanni Paolo II. La circostanza particolare in cui essa è stata presentata alla stampa ha voluto sottolineare, intenzionalmente, la speciale importanza che la Chiesa cattolica annette al dialogo e alla collaborazione col mondo dell’arte in tutte le sue più nobili espressioni. Infatti nella stessa mattina di venerdì 23 aprile 1999, in successione, ci sono state la conferenza stampa di presentazione della Lettera del Papa Giovanni Paolo II agli artisti[3] e l’inaugurazione della mostra Paolo VI. Una luce per l’arte4. Tale mostra, allestita nel Braccio di Carlo Magno in Vaticano, ha voluto essere sia un omaggio alla memoria di Paolo VI, nel centenario della nascita, e all’amore appassionato da lui mostrato verso l’arte, sia un ringraziamento agli artisti contemporanei che hanno accolto l’appello che egli rivolse loro il 7 maggio 1964, nella Cappella Sistina.
In quell’occasione, Paolo VI, come ha ricordato lo stesso Giovanni Paolo II nel suo discorso d’inaugurazione della mostra, parlava di un’«amicizia turbata» tra la Chiesa e gli artisti e, nello stesso tempo, svolgeva un’importante riflessione sul rapporto arte e fede cristiana, affermando: «Noi dobbiamo lasciare alle vostre voci il canto libero e potente di cui siete capaci»; e quindi aggiungeva col tono appassionato che gli era proprio: «Noi abbiamo bisogno di voi. […] Il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità. […] Voi avete anche questa prerogativa, nell’atto stesso che rendete accessibile e comprensibile il mondo dello spirito: di conservare a tale mondo la sua ineffabilità, il senso della sua trascendenza, il suo alone di mistero, questa necessità di raggiungerlo nella facilità e nello sforzo allo stesso tempo. […] noi dobbiamo domandare a voi tutte le possibilità che il Signore vi ha donato, e, quindi, nell’ambito della funzionalità e della finalità che affratellano l’arte al culto di Dio, noi dobbiamo lasciare alle vostre voci il canto libero e potente, di cui siete capaci. E voi dovete essere così bravi da interpretare ciò che dovete esprimere, da venire ad attingere da noi il motivo, il tema, e qualche volta più del tema, quel fluido segreto che si chiama l’ispirazione, che si chiama la grazia, che si chiama il carisma dell’arte»[4].
La Chiesa e l’arte
Nella Lettera di Giovanni Paolo II si sente l’eco diretta di quanto affermava Paolo VI su quella duplice complementarità tra arte e fede cristiana, sul reciproco «bisogno» tra la Chiesa e gli artisti («Noi abbiamo bisogno di voi»), tra gli artisti e la Chiesa, che può dare all’artista motivo e tema d’ispirazione. Infatti due appositi paragrafi della Lettera agli artisti sono dedicati rispettivamente al fatto che «la Chiesa ha bisogno dell’arte» (n. 12) e che l’arte può aver bisogno della Chiesa (L’arte ha bisogno della Chiesa?) (n. 13). Sul primo aspetto o «bisogno», riprendendo quasi alla lettera il pensiero di Paolo VI, si afferma e si sottolinea: «Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve, infatti, rendere percepibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio. [La Chiesa] deve dunque trasferire in formule significative ciò che è in se stesso ineffabile. Ora, l’arte ha una capacità tutta sua di cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda o ascolta. E questo senza privare il messaggio stesso del suo valore trascendente e del suo alone di mistero». E di seguito vengono elencati i motivi particolari per cui la Chiesa sente sempre il bisogno della collaborazione degli artisti sul piano letterario e figurativo, musicale e architettonico (cfr n. 12).
Il secondo versante, posto in forma interrogativa: L’arte ha bisogno della Chiesa?, al di là di una domanda che potrebbe suonare «provocatoria», trova in verità una risposta altrettanto positiva secondo la visione cristiana dell’uomo e del mondo. La religione, scrive il Papa, quale «patria dell’anima», è stata sempre fonte d’ispirazione artistica; anche le domande grandi e personali sul senso della vita, della storia e del mondo, alle quali gli artisti, con le loro opere, cercano di dare risposta, nascono nell’ambito religioso. Per questo, non solo «la Chiesa ha fatto sempre appello alle loro [degli artisti] capacità creative per interpretare il messaggio evangelico e la sua concreta applicazione nella vita della comunità cristiana»; ma tale collaborazione è stata fonte di arricchimento anche per gli stessi artisti in riferimento soprattutto alla «comprensione dell’uomo, della sua autentica immagine, della sua verità». Se è vero che tutte le religioni, come quella greca e romana, come anche quelle ancora fiorenti delle antichissime civiltà dell’Oriente hanno dato sempre «suggestioni stimolanti» agli artisti, «resta vero, tuttavia, che il cristianesimo, in virtù del dogma centrale dell’incarnazione del Verbo di Dio, offre all’artista un orizzonte particolarmente ricco di motivi di ispirazione». Il distacco dal Vangelo, «filone inesauribile» di ispirazione, sarebbe un grave impoverimento per la stessa arte (n. 13). Di questi due versanti, in vista di un reciproco arricchimento e di una fruttuosa collaborazione, la Chiesa sente l’urgenza, come afferma Giovanni Paolo II citando Paolo VI, di «una nuova alleanza con gli artisti» (n. 10).
La struttura della Lettera
Lo scritto di Giovanni Paolo II, nel quale si avverte il tocco della sensibilità personale del Pontefice verso il mondo dell’arte, è una scrittura colta. Facendo perno sul tema della bellezza, sono citati molti autori, antichi e moderni, che ad essa hanno fatto riferimento esplicito: nell’ambito letterario (da Platone a Paul Claudel), teologico (da sant’Agostino a Chenu), artistico (dal Beato Angelico a Marc Chagall), musicale (da Pier Luigi da Palestrina a Bach, Mozart, Verdi). Ovviamente non poteva mancare il ricordo del Messaggio agli artisti, fatto dai Padri conciliari nell’atto conclusivo (8 dicembre 1965) del Vaticano II: «Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione. La bellezza come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto che resiste al logorio del tempo» (cfr n. 11).
A questo punto può essere utile ripercorrere l’indice del documento, che, già da solo, dà un’idea dell’andamento, del filo rosso che unifica la Lettera pontificia: l’artista, in quanto tale, è visto anzitutto come immagine di Dio creatore ed è dotato di una speciale vocazione, posta al servizio della bellezza e segnata anch’essa da una dimensione etica. Quindi, dopo aver trattato il punto centrale della riflessione, costituito dall’evento storico salvifico dell’Incarnazione del Verbo, dal quale nasce la possibilità di una vera e propria arte cristiana, e dopo aver rilanciato la necessità di un’alleanza feconda tra Vangelo e arte, Giovanni Paolo II percorre in sintesi l’arco della storia dell’arte nel cristianesimo: dai primordi costituiti dalle espressioni figurative paleocristiane, passando per l’epoca costantiniana e bizantina, attraverso il Medioevo, l’Umanesimo e il Rinascimento, fino all’età moderna. Oltre ai punti ai quali abbiamo già accennato, ossia lo sguardo verso un rinnovato dialogo tra Chiesa e arte, per un reciproco arricchimento, subito dopo l’appello del Pontefice agli artisti moderni per realizzare tale nuova alleanza tra arte e fede, viene dedicato un apposto paragrafo al tema «Spirito creatore e ispirazione» artistica. La conclusione dello scritto dà il senso all’intera lettera: «La “Bellezza” che salva (n. 16)».
Gli Artefici divini e l’artefice umano
Se letta con attenzione, tra le righe della Lettera agli artisti si intravedono grandi questioni teoretiche sul rapporto tra estetica ed etica, tra arte e vita, e soprattutto è sottintesa la grande questione metafisica: che cos’è il «bello» (pulchrum)? Il bello, di cui si interessano la filosofia e la teologia, è un trascendentale dell’essere in quanto tale come lo sono il «vero» e il «buono»? Oppure esso è da considerarsi un suo predicamentale? Detto in altri termini, qual è la patria originaria del bello? Il mondo o Dio? La creatura o il Creatore? Se «la patria del bello è il mondo», la creatura, il bello viene detto un «predicamentale» dell’essere e quindi non potrebbe essere predicato di Dio in senso originario. «Se invece il bello viene inteso come un trascendentale, allora la sua definizione deve essere formulata a partire da Dio e ciò che in primo luogo appartiene a Dio, la sua rivelazione nella storia e la sua incarnazione, […] dev’essere considerato come il bello supremo e archetipo del mondo». Questa riflessione, con la quale Hans Urs von Balthasar introduce alla sua opera monumentale sulla bellezza o gloria di Dio quale originaria «estetica teologica»[5], ossia la rivelazione primaria di Dio nella cifra della kabôd (Antico Testamento) o doxa (Nuovo Testamento), è essenziale per comprendere di quale «bellezza» tratti la Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II. Il «bello», di cui indaga la filosofia e che l’arte cerca d’interpretare ed esprimere, sul piano biblico e teologico corrisponde al «glorioso», alla Gloria Dei, ossia alla sua signoria e trascendenza, maestà e grazia. In Dio e per Dio la sua «gloria» o divinità è tutt’uno col suo infinito amore trinitario, rivelato in Gesù Cristo, perfetta «immagine di Dio», «splendore della sua gloria» (Eb 1,3; cfr Gv 1,14) e sul cui volto di uomo splende la stessa «gloria di Dio» (2 Cor 4,4-6). Perciò, con ragione, Karl Barth poteva affermare: «Dio non è Dio perché è bello, ma egli è bello perché è Dio»[6]. Infine, secondo la più antica intuizione della teologia cristiana, formulata già da sant’Ireneo, oggetto e scopo della manifestazione della gloria di Dio attraverso il «capolavoro» della creazione e della redenzione in Gesù Cristo è l’uomo stesso nella sua condizione storica di creatura peccatrice e bisognosa di salvezza: Gloria Dei vivens homo, et visio Dei vita hominis.
Su questa visione metafisica dell’essere e su un’analoga comprensione teologica, secondo cui Dio dev’essere contemplato come l’archetipo sovrabbondante di ogni bellezza mondana e umana, si sono mossi i Padri della Chiesa, i grandi teologi cattolici e tutta l’arte cristianamente ispirata. L’arte umana era compresa e attuata a livello esplicito o implicito come uno specchiarsi nell’Oceano della bellezza («gloria») di Dio, un’imitazione dell’arte divina (ars divina) profusa da Dio creatore nella creazione del mondo, nella natura intima delle cose. Un’eco di tale visione si riscontra ancora in epoca moderna in un grande artista come Pierre-August Renoir, il quale affermava: «Per essere un artista occorre imparare a conoscere le leggi della natura».
Una simile riflessione filosofico-teologica ci è sembrata necessaria per poter individuare più agevolmente il grande filone teologico ed estetico da cui parte e nel quale si muove la Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II. A tale tradizione del pensiero cristiano si rifà soprattutto la prospettiva teologica che, dall’inizio alla fine, attraversa lo scritto del Santo Padre. Infatti egli stesso afferma: «La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente» (n. 16). Ora, la Lettera del Papa è redatta su un esplicito riferimento sia al mistero di Dio sia alla sua azione trinitaria, quindi a quell’ars divina realizzata nella storia della salvezza dal Padre (creazione del mondo e dell’uomo), dal Figlio (Incarnazione) e dallo Spirito Santo (ispirazione). L’opera dell’artista è come un riflesso, certo umano, limitato e contingente, dell’infinita bellezza propria di Dio e da lui profusa nel mondo e nella storia della salvezza.
Con Dio Padre l’artista è associato all’opera della «creazione», proprio in quanto egli è «immagine di Dio creatore» (n. 1): «Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza — afferma il Papa all’inizio della sua Lettera —, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l’opera del vostro estro, avvertendovi quasi l’eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi» (n. 1). Non dimenticando il grande tema dell’analogia filosofica e teologica, ossia della «infinita distanza tra il Creatore e la creatura», come viene ricordato nello stesso paragrafo iniziale citando il Cusano, si afferma: «L’Artista divino, con amorevole condiscendenza, trasmette una scintilla della sua trascendente sapienza all’artista umano, chiamandolo a condividere la sua potenza creatrice». Per questo la speciale vocazione e missione dell’artista consistono nel realizzare con la sua opera, e quindi comunicare agli altri, l’armonia di «bellezza-bontà», vale a dire quella kalokagathia di cui parlavano gli antichi greci: «La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello» (Platone) (n. 3).
Questa indivisibilità dei «trascendentali», per dirla nei termini della filosofia tomista, anche sul piano artistico, torna nel rapporto tra il Figlio incarnato e l’artista: «Facendosi uomo, il Figlio di Dio ha introdotto nella storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene, e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza: il messaggio evangelico ne è colmo fino all’orlo». Infatti, nel mistero dell’Incarnazione, in forza del quale «Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo», il Dio invisibile e inesprimibile dell’Antico Testamento si è fatto visibile (n. 5). In forza di questa «visibilità di Dio», qual è il Verbo fatto carne (Ireneo), lo stesso «Dio-mistero» può essere rappresentato in immagine, segno, suono o colore dell’esperienza umana; così «la Sacra Scrittura è diventata […] una sorta di “immenso vocabolario” (P. Claudel) e di “atlante iconografico” (M. Chagall)» (n. 5).
Trattando quindi del rapporto dell’artista umano con l’azione dello Spirito Santo, «il misterioso artista dell’universo», chiamato anche «soffio» (ruah) e «spirazione», il Papa si rivolge direttamente agli artisti del terzo millennio ai quali, se invocato, non mancherà di giungere l’effusione dello stesso Spirito, ossia la sua «ispirazione»: «Ogni autentica ispirazione […] racchiude in sé qualche fremito di quel “soffio” con cui lo Spirito creatore pervadeva sin dall’inizio l’opera della creazione», quando, come recita l’inizio della Genesi: «La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio [ruah Elohim] aleggiava sulle acque» (Gn 1,2). Da parte nostra, possiamo aggiungere una bella immagine dello Pseudo-Macario, la quale esprime sinteticamente quanto il Papa afferma in questo contesto finale del rapporto tra lo Spirito Santo e l’«ispirazione» artistica: lo Spirito Santo è «l’iconografo», ossia colui che dipinge nell’uomo l’immagine di Cristo, icona visibile del Padre invisibile. Dal canto suo, l’artista è chiamato a riscoprire il valore dell’essere e dell’uomo, anche quando il suo volto è segnato dalla miseria e dal dolore.
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Un rinnovato dialogo tra arte e fede
Con la sua Lettera agli artisti, redatta senza ombra di condanne né di critiche ma in spirito di aperta collaborazione, Giovanni Paolo II in certo senso completa il discorso che ha fatto nella recente enciclica Fides et ratio (FeR), apparsa nello scorso autunno: aggiunge cioè un importante tassello alla riflessione molto più articolata sul rapporto tra Chiesa e cultura moderna. Nell’enciclica il Papa toccava il punctum dolens della modernità riguardante «il dramma della separazione tra fede e ragione» (FeR, nn. 45-48); nello stesso tempo egli ribadiva «il forte interesse che la Chiesa dedica alla filosofia; anzi, il legame intimo che unisce il lavoro teologico alla ricerca scientifica della verità» (n. 63); di qui la necessità di puntare a realizzare, anche nell’epoca moderna, una «interazione tra teologia e filosofia» (FeR, cap. VI) recuperando una filosofia «autenticamente metafisica», in modo da passare dal fenomeno (ciò che appare) al fondamento stesso dell’essere (FeR, n. 83).
Nella lunga e ricca tradizione della civiltà occidentale, proprio dalla metafisica, ossia dalla contemplazione dell’essere come uno, vero, buono e bello, sono nate sia la speculazione filosofica sia l’arte sotto il segno dello stupore, della meraviglia, dell’entusiasmo, ossia l’ispirazione mossa dalla «scintilla divina» (enthousiasmos) presente nell’uomo. Con la sua Lettera agli artisti Giovanni Paolo II mira anzitutto a far superare quel «dramma della nostra epoca», ossia «la rottura (discidium) tra Vangelo e cultura» di cui aveva parlato Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (n. 20). Rivolgendosi direttamente agli artisti, «i guardiani della bellezza nel mondo», come li chiamò il Concilio Vaticano II nel Messaggio rivolto loro, il Papa si rifà alla lettera e allo spirito dello stesso Concilio ribadendo che «la Chiesa ha bisogno dell’arte e degli artisti». Col suo «appello finale» (n. 14), il Santo Padre si rivolge agli artisti di tutto il mondo affinché tutti possano «contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l’arte e la Chiesa. il mio è un invito a riscoprire la profondità della dimensione spirituale e religiosa che ha caratterizzato in ogni tempo l’arte nelle sue più nobili forme espressive»; agli artisti cristiani egli ricorda che «l’alleanza stretta da sempre tra Vangelo e arte, al di là delle esigenze funzionali, implica l’invito a penetrare con intuizione creativa nel mistero del Dio incarnato e, al contempo, nel mistero dell’uomo».
In quanto ricerca del bello, ci ricorda il Papa, l’arte «è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero» (n. 10) e in quanto «cifra del mistero», essa è «richiamo al trascendente» (n. 16), ossia a Dio, Bellezza Suprema, pulchritudo omnium pulchritudinum («Bellezza di tutte le bellezze»), come direbbe san Bonaventura. E Dio è tale, il Bello assoluto, «bellezza sopra ogni bellezza» (santa Caterina da Siena), poiché Egli è «Id quo maius cogitari nequit -Colui di cui non si può pensare niente di più grande» (sant’Anselmo). Di Dio, il cui mistero nelle epoche di alta tensione spirituale ha suscitato sempre lo stupore, la meraviglia e l’entusiasmo degli artisti, anche l’uomo moderno ha un bisogno vitale, affinché la vita non sia asservita alla tecnica, il mondo non cada nella disperazione, ma l’umanità intera possa trovare sempre vie e mezzi per risorgere e soprattutto per sperimentare, con rinnovato stupore, che «la Bellezza salverà il mondo».
[1] Lettera del Papa Giovanni Paolo II agli artisti, in Oss. Rom.-Documenti, 24 aprile 1999, I-IV; ID. (libretto), Città del Vaticano, Tip. Vaticana, 1999. Le citazioni indicate nel nostro testo, salva diversa specificazione, si riferiscono ai paragrafi del documento, composto di 16 numeri. Il 29 aprile, il quotidiano della Santa Sede riportava una prima recezione della Lettera del Papa, con articoli degli scrittori Manlio Cancogni, Ferruccio Ulivi, Franco Patruno, Antonio Braga e Rodolfo Doni.
[2] «Questa relazione [tra artefice e Creatore] — si legge ancora all’inizio della Lettera di Giovanni Paolo II (n. 1) — è evocata con particolare evidenza nella lingua polacca, grazie alla vicinanza lessicale fra le parole stwórca (creatore) e twórca (artefice).
[3] Il 23 aprile, nella Sala Stampa della Santa Sede si è tenuta la conferenza stampa di presentazione di tale lettera; ad essa hanno partecipato il card. Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura; il prof. Vitalino Tiberia, della Pontificia Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon; il regista Ermanno Olmi; la scrittrice Susanna Tamaro: cfr Oss. Rom., 24 aprile 1999, 4.
[4] MONUMENTI MUSEI E GALLERIE PONTIFICIE – MUSEO DEL DUOMO DI MILANO, Paolo VI. Una luce per l’arte, a cura di E. BRIVIO – M. FERRAZZA, Milano – Città del Vaticano, Silvana Editoriale, 1999. Il catalogo presenta e illustra con molta cura le circa 600 opere esposte nella mostra, aperta dal 24 aprile al 12 giugno 1999. Le opere esposte e realizzate in pittura, scultura e grafica, testimoniano «l’impatto emozionale che la personalità di questo Pontefice e la sua figura sensibile e nobile hanno saputo avere con gli artisti» (F. Buranelli).
[5] H. U. VON BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica, vol. I: La percezione della forma, Milano, Jaca Book, 1975, 58.
[6] K. BARTH, citato da H. U. VON BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica, vol. VII: Nuovo Patto, ivi, 1977, 27.5 PAOLO VI, Discorso agli artisti (7 maggio 1964), in AAS 56 (1964) 438-444.