|
La morte dell’on. E. Berlinguer, segretario del PCI, avvenuta l’11 giugno 1984 a Padova in seguito a un’emorragia cerebrale da cui era stato colpito il 7 giugno durante un comizio, ha fortemente commosso l’opinione pubblica. Ne è stata una prova il solenne funerale celebrato il 13 giugno in Piazza S. Giovanni, a Roma, al quale ha partecipato – oltre al Capo dello Stato e alle più alte autorità della Repubblica, alle delegazioni dei partiti italiani e di parecchi partiti comunisti stranieri – un’enorme folla di oltre un milione di persone, venute da tutta l’Italia, in massima parte militanti e simpatizzanti comunisti.
L’inattesa scomparsa di colui che dirigeva il PCI da dodici anni ci offre l’occasione di percorrere brevemente le tappe essenziali della sua attività di massimo dirigente del comunismo italiano, allo scopo di vedere qual è stata l’evoluzione del PCI negli ultimi 10-15 anni. È indubbio, infatti, che il PCI è oggi molto diverso da quello che fu con Togliatti e poi con Longo.
Artefice di questa «diversità» è stato l’on. Berlinguer, anche se non è mancato un notevole contributo di tutto il gruppo dirigente del partito; basti pensare al ruolo svolto dall’on. G. Amendola, da «destra», e dall’on. P. Ingrao, da «sinistra».
L’on. Berlinguer è stato solo uomo di partito, non avendo ricoperto alcun incarico pubblico, né esercitato alcuna professione. Iscrittosi al PCI a 21 anni nel 1943, l’anno seguente conobbe Togliatti a Salerno, nel 1945 entrò a far parte del Comitato Centrale e fu inviato a Milano a organizzare il Fronte della Gioventù. Nel 1948 fu eletto nella direzione nazionale. Dal 1950 al 1953 fu presidente della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica, avendo così modo di viaggiare di continuo tra Roma, Mosca, Praga e Berlino e fare un’esperienza terzinternazionalista. Questa fece nascere in lui – che non aveva vissuto da vicino l’esperienza sovietica – un legame con l’URSS e con i Paesi dell’Est, che le future vicende non avrebbero mai completamente interrotto.
Dopo una breve esperienza di lavoro in periferia – nel 1957 fu a Cagliari come segretario regionale –, nel 1958 fu richiamato a Roma per dirigere l’organizzazione del partito. Negli anni ’60 egli consolidò la sua posizione al vertice del PCI, senza tuttavia partecipare alle polemiche interne. Così, a Parigi nel 1964, difese alla presenza di Suslov la posizione del PCI che si rifiutava di scomunicare il partito comunista cinese (ribelle a Mosca), ma non partecipò alla lotta tra la tendenza di Amendola e quella d’Ingrao, che si concluse con la condanna di quest’ultimo all’XI Congresso del PCI (1966). Non avendo voluto condannare l’«eretico» Ingrao, fu «esiliato» alla segreteria regionale del Lazio; ma per poco. Eletto deputato nel 1968 – l’anno della contestazione studentesca e della fine della «Primavera di Praga», perciò in un momento difficile per il PCI, la cui fedeltà a Mosca era messa a dura prova –, l’on. Berlinguer ne prese praticamente la direzione, essendo stato eletto nel 1969 vicesegretario (in realtà, segretario, poiché nell’autunno del 1968 l’on. Longo, segretario del PCI dal 1964, era stato colpito da grave infermità). Iniziava, così, in maniera sommessa, secondo lo stile dell’on. Berlinguer, la sua vicenda a capo del maggior partito comunista dell’Occidente.
Quali sono state le linee essenziali della sua segreteria, e quali i risultati? Com’è cambiato il PCI sotto la sua direzione, e con quali conseguenze sulla politica italiana e sul suo futuro? È quello che vorremmo cercare di vedere in questa nota che non pretende essere di storia, ma solo di cronaca.
La «via italiana al socialismo»
Quando l’on. Berlinguer giunse al vertice del PCI, era già stata elaborata una «via italiana al socialismo», che consisteva nella ricerca di un modello di socialismo che corrispondesse alle condizioni del nostro Paese e, più in generale, alle condizioni proprie dei Paesi di capitalismo avanzato. Una via che, per tale motivo, respingeva sia il modello riformistico socialdemocratico, incapace di correggere le storture del capitalismo, sia il modello rivoluzionario leninista, inadatto per un Paese ad alto sviluppo industriale, come l’Italia; sceglieva, invece, la via democratica al potere, attraverso la conquista del consenso della società civile come strada per la conquista del potere politico, in un sistema pluripartitico e di libero confronto delle idee e delle forze politiche[1]. È stato merito dell’on. Berlinguer aver approfondito anche teoricamente questa linea, e aver fatto della «via italiana al socialismo» la «via europea», dando vita insieme con G. Marchais, segretario del PCF, e con S. Carrillo, segretario del PCE, al cosiddetto «eurocomunismo», basato sulla «convinzione che il socialismo si può affermare nei nostri Paesi, solo attraverso lo sviluppo e l’attuazione piena della democrazia». Ciò ha come base «l’affermazione del valore delle libertà personali e collettive e della loro garanzia, dei principi della laicità dello Stato, della sua articolazione democratica, della pluralità dei partiti in una libera dialettica, dell’autonomia del sindacato, delle libertà religiose, della libertà di espressione, della cultura, dell’arte e delle scienze»[2]. Secondo l’on. Berlinguer, si trattava d’introdurre progressivamente, attraverso il metodo della democrazia, «elementi di socialismo nella vita sociale e in quella statale, politica e morale».
Punti qualificanti della «via italiana al socialismo» erano soprattutto tre: l’unità delle tre grandi forze popolari (comunisti, socialisti e cattolici); la presa di distanza dallo Stato-guida (l’URSS) e dal Partito guida (il PCUS) pur nella fedeltà all’internazionalismo proletario; l’inserimento del PCI nell’Europa e nell’Occidente. Furono precisamente queste le linee politiche sulle quali maggiormente s’impegnò l’on. Berlinguer, pur con molte contraddizioni, incertezze e marce indietro, determinate dal timore di causare lacerazioni in un partito di tradizione e di cultura terzinternazionalista, leninista e stalinista.
Il «compromesso storico»
Già Gramsci e Togliatti avevano pensato a un «blocco storico» tra comunisti, socialisti e cattolici. Dopo che Longo nel 1966 aveva parlato di «unificazione delle forze socialiste» e aveva invitato i cattolici a collaborare col «partito della classe operaia», l’on. Berlinguer nel Congresso di Bologna (1969) parlò della costruzione d’un «nuovo blocco storico» tra comunisti, socialisti e cattolici, e ribadì lo stesso concetto nel Congresso di Milano (1972). Però, un anno dopo, nel 1973, propose non più un «blocco storico», ma un «compromesso storico» tra comunisti, socialisti e cattolici. Perché questo nome nuovo? L’on. Berlinguer aveva abbandonato l’idea di «blocco», perché ricordava troppo la politica dei «fronti popolari», nei quali l’influsso del partito comunista era predominante su quello dei partiti associati. Invece il «compromesso» voleva indicare che l’accordo era tra partiti di uguale dignità e tale che ognuno dovesse cedere su qualche cosa o su qualche punto per il raggiungimento del fine comune. Doveva essere poi un compromesso «storico»: non, quindi, un incontro tattico e a breve termine, ma un’alleanza strategica, che avrebbe dovuto durare a lungo, anche dopo la conquista del potere. Inoltre il «compromesso» doveva essere fatto non fra il PCI e gruppi di socialisti e di cattolici, ma fra il PCI, il PSI, la DC (tutta la DC), in quanto partito che rappresentava i cattolici sul piano politico. L’on. Berlinguer fu indotto alla proposta del «compromesso storico» dagli avvenimenti del Cile, dove il presidente Allende aveva fallito, perché l’Unidad Popular (cioè la coalizione di comunisti, socialisti e cattolici di sinistra) non aveva avuto l’appoggio della DC di E. Frei. Il regime «fascista» di Pinochet aveva approfittato della divisione fra i due partiti. Non poteva avvenire la stessa cosa in Italia? Perciò, per scongiurare definitivamente il pericolo fascista, l’on. Berlinguer non vedeva altra alternativa se non il «compromesso storico». I socialisti proponevano l’«alternativa socialista», cioè un governo delle sinistre con la DC all’opposizione; ma egli rigettava questa proposta, perché – a suo parere – non era pensabile che le forze di sinistra italiane riuscissero ad avere, almeno nel breve periodo, la maggioranza dei voti e, anche se l’avessero avuta, non era possibile governare il Paese con una maggioranza molto ristretta; soprattutto, non si sarebbero potute fare le grandi riforme necessarie per spianare la via al socialismo in Italia contro i cattolici e contro i ceti medi, cioè contro le forze politicamente più rappresentate dalla DC. Di conseguenza, per il Segretario del PCI, la via della transizione al socialismo in Italia passava necessariamente attraverso l’accordo con i cattolici, quindi con la DC[3].
Il «compromesso storico» è stata la scelta politica più impegnativa dell’on. Berlinguer, ma ha trovato nel PCI, sia alla base, in cui era molto forte l’avversione alla DC, sia nel gruppo dirigente, una vivace resistenza, cosicché nel 1980 ha dovuto essere abbandonata. L’opposizione più forte veniva dall’on. Amendola, che propugnava l’unione dei comunisti con i socialisti e i socialdemocratici; dall’on. Ingrao, che pensava a un incontro del PCI non con la DC, bensì con le frange progressiste cattoliche scontente della DC; e dal sen. Terracini, rappresentante dell’anima stalinista del partito. Quanto alla DC, di cui era allora segretario politico il sen. Fanfani, il rifiuto del «compromesso storico» fu netto nella grande maggioranza di essa.
Tuttavia, sia la sinistra democristiana, sia l’on. Moro, che da qual che anno propugnava una «strategia dell’attenzione» verso il PCI, pur non accettando nella formulazione berlingueriana il «compromesso storico» per le sue connotazioni ideologiche e l’apparenza di tatticismo, pensavano a una «terza fase» (l’espressione era dell’on. Moro) della vita politica italiana (dopo le esperienze del centro, già esaurita, e del centrosinistra in via d’esaurimento) per il rafforzamento della democrazia, minacciata da molti pericoli: disgregazione del tessuto sociale per l’acuirsi della difesa degli interessi corporativi, crisi delle istituzioni politiche, della famiglia e della scuola, eccessiva litigiosità dei partiti, instabilità politica e ingovernabilità del Paese, crescita dell’inflazione, terrorismo.
Così, la prima parziale attuazione del «compromesso storico» si ebbe con i governi di solidarietà nazionale, guidati dall’on. Andreotti, quando l’on. Moro divenne presidente della DC e l’on. Zaccagnini suo segretario. Fu il momento in cui il PCI, con la partecipazione alla maggioranza, fu più vicino al raggiungimento della meta da sempre agognata: la partecipazione al governo dell’Italia; ma fu anche il momento in cui l’on. Berlinguer subì la sua più grave sconfitta. Avversato da personaggi autorevoli del PCI – Longo e Amendola –, che lo accusavano di accettare una politica di sacrifici in cambio di niente, e dal movimento sindacale, che rifiutava l’invito alla moderazione in fabbrica e la politica dell’austerità, l’on. Berlinguer ebbe l’amarezza di subire il 3 giugno 1979 un grave tracollo elettorale. Il PCI aveva perduto un milione e mezzo di voti.
Era la fine della solidarietà nazionale e del tentativo d’incontro con la DC. Tanto più che il 9 maggio 1978 era scomparso l’on. Moro, ucciso dalle Brigate Rosse, precisamente per aver cercato di avvicinare i due maggiori partiti italiani in una politica di solidarietà nazionale. All’indomani del terremoto del 23 novembre 1980, con l’accusa d’inefficienza rivolta al Governo, l’on. Berlinguer ruppe clamorosamente con la maggioranza, dichiarando finita la politica di solidarietà nazionale – e quindi quella del «compromesso storico» –, e annunciando una nuova linea politica del PCI: quella dell’«alternativa democratica» (cioè d’un governo senza la DC), a cui avrebbero dovuto partecipare uomini «capaci e onesti». Una politica, quindi, al cui centro avrebbe dovuto essere la questione morale.
Attenzione al mondo cattolico. La «laicità» del PCI
Con la fine del «compromesso storico», il PCI entrava in un periodo di grave incertezza circa la linea politica strategica da perseguire. Non era chiaro, infatti, che cosa potesse significare in concreto la proposta dell’«alternativa democratica» che da una parte escludeva la DC, a cui negava ogni capacità politica di rinnovamento, e dall’altra voleva distinguersi dall’«alternativa di sinistra» proposta dal PSI e rigorosamente limitata alle forze di sinistra. L’effetto fu l’isolamento del partito, obbligato a battaglie tattiche, senza una prospettiva politica di largo respiro e di lungo periodo; soprattutto, fu un più vasto spazio lasciato al protagonismo aggressivo del PSI, deciso sull’onda d’un accresciuto consenso elettorale e dell’appoggio di uomini della cultura e dell’industria, precipitosamente convertiti al garofano, a porsi al centro dello schieramento politico italiano e a emarginare a destra la DC e a sinistra il PCI.
Così, gli ultimi tre anni sono stati i meno brillanti della lunga segreteria dell’on. Berlinguer. Essi, infatti, sono stati segnati da un’aspra lotta sia contro la DC dell’on. De Mita, nella quale tuttavia la sinistra ha tenuto aperta la porta per un incontro col PCI sui grandi temi istituzionali, sia contro il PSI dell’on. Craxi, per l’egemonia della sinistra, ma senza che emergesse un chiaro disegno politico. Non sono, tuttavia, mancate battaglie di valore politico e morale combattute dall’on. Berlinguer in questi ultimi anni. Le più significative sono state certamente quelle per la pace e per la questione morale e quella contro la mafia.
L’on. Berlinguer è, dunque, uscito di scena quando la sua carica creativa s’era in gran parte già spenta. Ci sembra, tuttavia, doveroso dire che se la linea del «compromesso storico» è fallita politicamente per determinate contingenze storiche, ha però avuto un valore culturale e sociale notevole. Essa riconosce con esattezza che le forze del cambiamento e del progresso non erano solo quelle di sinistra, come pretendeva la cultura marxista, ma, con le altre, anche quelle cattoliche, in quanto portatrici di valori etici che, secondo l’on. Berlinguer, non potevano non essere presenti in una linea politica di progresso.
Si spiega così l’interesse, non meramente ed esclusivamente tattico e politico, che l’on. Berlinguer, non credente, ha avuto per un dialogo col mondo cattolico, come appare dalla sua famosa lettera al vescovo d’Ivrea, mons. Luigi Bettazzi (ottobre 1977).
Non solo egli riprendeva la tesi approvata nel X Congresso (1962) – «L’ispirazione socialista non solo può farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma tale ispirazione può trovare uno stimolo in una sofferta coscienza religiosa» –, ma affermava che il PCI è «un partito laico e democratico, come tale non teista, non ateista e non antiteista», e vuole uno Stato «laico e democratico, anch’esso dunque non teista, non ateista, non antiteista». Il PCI, quindi, era marxista, ma per esso il marxismo era non un «credo ideologico», bensì una «grande, vivente lezione», da cui trarre ispirazione; perciò, in quanto partito politico non professava «una filosofia, e in particolare una metafisica materialistica e una dottrina atea», né si proponeva «d’imporre, o anche solo di privilegiare, nell’attività politica e nello Stato, una particolare ideologia e l’ateismo». Aggiungeva, infine, in risposta all’accusa mossa al PCI di osteggiare le istituzioni e le iniziative religiose nelle Regioni dov’ esso è al potere: «Noi comunisti vogliamo una società organizzata in maniera tale da essere sempre più aperta e accogliente anche verso i valori cristiani; non vogliamo però una società “cristiana” o uno Stato “cristiano”: e non già perché siamo anticristiani, ma solo perché sarebbero anch’essi una società e uno Stato “ideologici”, integralisti».
Per parte nostra, quando negli anni scorsi s’è trattato di giudicare la linea politica del PCI in campo religioso, non abbiamo mancato di rilevarne molte ambiguità e incertezze, nonché un tatticismo di fondo, che in realtà non è stato mai assente dalla politica religiosa del PCI, a cominciare da Gramsci e da Togliatti. Nello stesso tempo, però, abbiamo riconosciuto il valore di certi fatti, voluti dall’on. Berlinguer, come la revisione dell’art. 5 dello Statuto del PCI e l’approvazione da parte del XV Congresso nazionale del PCI (1979) della tesi 14, che rappresenta il punto d’arrivo dell’evoluzione del PCI in fatto di religione: «Particolarmente significativo è lo sviluppo delle posizioni politiche e teoriche del nostro partito sulla religione. Il PCI riafferma, per l’oggi e per il domani, il principio del rispetto della religione e di tutte le libertà religiose e il ruolo centrale della salvaguardia della pace religiosa per assicurare la convivenza e lo sviluppo democratico, e per favorire la politica di unità delle masse popolari. Il PCI in quanto tale non fa professione di ateismo. I comunisti italiani sono stati e sono impegnati in uno sforzo permanente per la ricerca di un accordo con il mondo cristiano e cattolico per salvare la civiltà umana dalla guerra atomica e per promuovere la giustizia e il progresso dell’umanità. Essi riaffermano la necessità di un dialogo, di un reciproco riconoscimento di valori e di un incontro con quei movimenti e forze cattoliche in cui sono presenti e operanti esigenze e tendenze di rinnovamento sociale, civile e morale. L’esperienza conferma che la coscienza cristiana, di fronte alla drammatica realtà del mondo contemporaneo, può essere di stimolo a un impegno di lotta per la trasformazione socialista della società. Tali posizioni politiche hanno un fondamento teorico, in quanto i comunisti italiani – attenti alla realtà della dimensione religiosa – hanno superato la concezione secondo cui basterebbe l’estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali a determinare modificazioni radicali per ciò che riguarda gli orientamenti ideali e la coscienza dell’uomo».
In tal modo, l’affermazione del valore della religione andava di pari passo con l’affermazione della laicità del partito e con la revisione del posto e della funzione che l’ideologia marxista-leninista ha nella vita del PCI: «Il PCI ha affermato da lungo tempo e sancito nello Statuto il principio della propria laicità, stabilendo che l’adesione al PCI avvenga sulla base del programma politico. Il partito comunista ha tuttavia un preciso punto di riferimento in una tradizione ideale e culturale che, storicamente, movendo dalla fondamentale ispirazione marxista, si è venuta formando e deve procedere in un continuo e fecondo confronto con le più vive correnti della cultura italiana e mondiale, con gli sviluppi del pensiero e della scienza moderna e con le diverse elaborazioni e interpretazioni del marxismo. Noi non concepiamo il pensiero di Marx, di Engels, di Lenin come un sistema dottrinario: perciò riteniamo da tempo che la formula “marxismo leninismo” non esprima tutta la ricchezza del nostro patrimonio teorico e ideale. Il pensiero dei fondatori del socialismo scientifico, così come quello di Lenin e di altri teorici e dirigenti del movimento operaio, fra i quali risalta il peculiare contributo di Gramsci e di Togliatti, ha costituito e costituisce, per i comunisti italiani, fonte di orientamento per l’analisi delle situazioni e per l’elaborazione politica, strumento d’indagine e base di orientamenti che vengono messi a profitto, verificati criticamente e rinnovati nel confronto con la realtà, con l’esperienza e con altre correnti di pensiero».
Un punto, invece, che per l’on. Berlinguer è stato sempre intoccabile e che ha fatto sì che il PCI conservasse ancora oggi il carattere di partito leninista è stato il «centralismo democratico». Di qui la contraddizione di fondo da cui l’on. Berlinguer non ha potuto o non ha voluto liberare il PCI: un partito che si professa democratico più di tutti gli altri partiti e si prefigge la costruzione d’una società e d’uno Stato democratici, ma nello stesso tempo applica al suo interno il più puro leninismo, che è quanto di più antidemocratico ci possa essere.
Distacco dall’URSS ed eurocomunismo
Il secondo fatto che ha caratterizzato la segreteria dell’on. Berlinguer è stato il distacco dall’Unione Sovietica e, come pendant a tale distacco, l’occidentalizzazione del PCI e l’«eurocomunismo». I rapporti dell’on. Berlinguer con l’URSS e i dirigenti sovietici sono stati sempre difficili. Non essendo stato formato nelle scuole Sovietiche, né avendo dimorato nell’URSS come altri dirigenti del partito, egli era sotto il profilo affettivo più libero nei confronti di Mosca.
Il distacco dall’Unione Sovietica è stato progressivo. Dapprima il PCI rivendicò la propria autonomia rispetto al Partito-guida (il PCUS), per quanto riguardava la realizzazione del socialismo in Italia, intendendo scegliere una via diversa da quella sovietica, ma senza per questo rinnegare l’internazionalismo proletario o accettare l’antisovietismo occidentale: «Chiunque si attende da noi l’abbandono del nostro internazionalismo, l’assunzione di posizioni di rottura nei confronti dell’Unione Sovietica è stato sempre e sarà disilluso»[4]. Parlando al XXV Congresso del PCUS (1976), l’on. Berlinguer dichiarò: «È nostra convinzione che una delle ragioni più importanti della crescita della nostra influenza sta nel fatto che da lungo tempo noi siamo impegnati a elaborare una via al socialismo che corrisponda pienamente ai caratteri peculiari dello sviluppo storico, civile e politico del nostro Paese. L’attualità del problema del socialismo ci impone anche di indicare con assoluta chiarezza quale socialismo noi riteniamo necessario e il solo possibile per la società italiana. Noi ci battiamo per una società socialista che sia il momento più alto dello sviluppo di tutte le conquiste democratiche e garantisca il rispetto di tutte le libertà individuali e collettive, delle libertà religiose e della libertà della cultura, delle arti e delle scienze. Pensiamo che in Italia si possa e si debba non solo avanzare verso il socialismo, ma anche costruire la società socialista, col contributo di forze politiche, di organizzazioni, di partiti diversi e che la classe operaia possa e debba affermare la sua funzione storica in un sistema pluralistico e democratico»[5].
Poi, l’on. Berlinguer, pur riconoscendo il valore della rivoluzione d’Ottobre, criticò l’attuazione del socialismo nell’URSS e nei Paesi dell’Est, parlando di «degenerazioni» ed «errori» del modello sovietico di comunismo, specialmente per le limitazioni imposte a una serie di libertà: «Noi vediamo che ciò sta in contraddizione con la visione che abbiamo del socialismo come pienezza di tutte le libertà»[6].
Il passo più decisivo sulla via del distacco dall’URSS l’on. Berlinguer lo compì nel 1980 con la condanna dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e il conseguente rifiuto di partecipare alla Conferenza dei partiti comunisti che si sarebbe svolta a Parigi, e nel 1981, all’indomani dello stato d’assedio attuato dal generale W. Jaruzelski in Polonia, quando dichiarò che «la fase dello sviluppo del socialismo che ebbe inizio con la rivoluzione d’Ottobre ha esaurito la sua forza propulsiva, che sono entrate in crisi in quei Paesi [URSS e Paesi dell’Est] le capacità di rinnovamento politico, economico, culturale, con il rischio non solo del riproporsi di continui conflitti tra esigenze riformatrici e strette autoritarie, ma di più gravi fatti involutivi» (11 gennaio 1982). Era lo «strappo» – come lo definì il sen. Cossutta – con la storia e la tradizione del PCI, ma soprattutto la rottura ideologica e politica con l’URSS e col modello sovietico, giudicato «involutivo» nel suo complesso e incapace di costituire un «punto di riferimento» delle classi lavoratrici e dei popoli che aspirano a liberarsi dal capitalismo[7].
In parallelo col progressivo distacco dall’URSS e dal modello sovietico, l’on. Berlinguer perseguì la politica dell’occidentalizzazione del PCI. Così, sotto il suo impulso i comunisti accettarono la CEE e la NATO. Personalmente l’on. Berlinguer dichiarò a un giornalista del Corriere della Sera, il 15 giugno 1976, di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello protettivo della NATO. In particolare, l’eurocomunismo – la cui definitiva formulazione è contenuta in una dichiarazione comune firmata a Madrid da E. Berlinguer, G. Marchais e S. Carrillo il 12 marzo 1977 – aveva l’ambizione di creare un modello europeo di comunismo, profondamente diverso da quello sovietico realizzato nell’URSS e nei Paesi del cosiddetto «socialismo reale».
Il PCI «in mezzo al guado»
A conclusione di questo rapido panorama sull’attività dell’on. Berlinguer quale segretario del PCI, possiamo chiederci se e in quale misura la sua visione d’un comunismo «diverso» sia stata fatta propria dal PCI, e quindi se e in quale misura questo partito sia divenuto veramente nuovo.
Rileviamo anzitutto che, sui problemi del socialismo, il pensiero dell’on. Berlinguer ha avuto un’evoluzione che per un uomo fortemente legato all’ideologia comunista e sempre affascinato dal mito sovietico – come tutto il gruppo dirigente del PCI, dominato dalla figura di Togliatti dal 1944 al 1964 – è stata assai faticosa e non esente da contraddizioni, poiché l’on. Berlinguer ha voluto conciliare comunismo e democrazia, comunismo e pluralismo, comunismo e libertà. In realtà, egli è stato e ha voluto sempre essere comunista e ha risentito come un’offesa la qualifica di «socialdemocratico» che qualcuno gli attribuiva; ha sempre sostenuto che il PCI, pur avendo superato «certi schemi del passato» e «pur continuando incessantemente a rinnovarsi, è restato, resta e resterà un partito comunista», cioè fedele – egli disse il 19 settembre 1976 a Napoli – «ai fini per i quali siamo sorti e lottiamo, e cioè i fini dell’emancipazione dei lavoratori, di tutta la società, della costruzione di una società in tutto e per tutto superiore a quella borghese. È questo ciò che chiamiamo fedeltà ai nostri principi»[8]. Di qui la sua fedeltà al leninismo, interpretato, certo, non come un dogma, ma come una «lezione vivente», a cui ispirarsi; tuttavia, mai totalmente abbandonato e, anzi, mantenuto fortemente nella conduzione del partito, basata sul principio leninista del «centralismo democratico».
Nello stesso tempo, però, egli ha proclamato l’inscindibilità tra socialismo e democrazia, affermando sia il valore – non tattico e temporaneo, ma strategico e duraturo – delle libertà democratiche, politiche e religiose e quindi il valore universale della democrazia; sia il pluripartitismo e l’accesso al potere, secondo il principio della maggioranza-minoranza; sia il carattere non-ideologico, ma politico e laico del PCI, al quale si aderisce in base all’accettazione non dell’ideologia marxista-leninista, ma del programma politico.
S’è detto che in tutto questo ci fosse del tatticismo. Per parte nostra non escludiamo che nell’attività dell’on. Berlinguer ci siano state prese di posizioni tattiche e strumentali (e non abbiamo mancato di rilevarlo in polemica rispettosa, ma ferma, con il PCI e il suo Segretario). Ci sembra tuttavia che, nel complesso, il suo sforzo di dar vita a un comunismo diverso, veramente democratico, fosse sincero. Sennonché, questo proposito s’è scontrato con una realtà – qual era il PCI di Togliatti e di Longo –, che era difficilmente permeabile alle nuove idee dell’on. Berlinguer, quando non aveva per esse una reazione di rigetto. Di qui l’impressione d’un sostanziale fallimento della strategia del l’on. Berlinguer. Fallimento, tuttavia, non totale. Il PCI, infatti, non è più oggi quello che era con Togliatti e con Longo, ma è profondamente diverso. «Le sue idee ci hanno cambiato», ha scritto C. Luporini[9]. Giustamente s’è detto che con l’on. Berlinguer il PCI è entrato «nel guado», nel tentativo di passare sulle rive d’una democrazia compiuta. Ma il tentativo non è del tutto riuscito, e la situazione del PCI è ancora oggi quella di chi si trova «in mezzo al guado». È una posizione scomoda. Ciò spiega perché negli ultimi anni l’on. Berlinguer, pur senza rinunziare alla prospettiva d’un comunismo diverso, è per certi aspetti tornato a concezioni e metodi del passato, rinverdendo l’operaismo e l’antisocialismo del PCI, attaccando maggioranza e Governo con estrema durezza, facendo ricorso all’ostruzionismo in Parlamento e alle manifestazioni di piazza. In tal modo ha restituito al PCI la vecchia immagine del partito che si batte da solo per la difesa della classe operaia e per la questione morale. Ciò forse – oltre all’emozione per la morte dell’on. Berlinguer – spiega il successo del PCI alle elezioni europee. Ma è davvero il successo della linea politica più matura e più originale dell’on. Berlinguer?
* * *
Ci siamo soffermati, in questa nota, solo sull’azione politica dell’on. Berlinguer, prescindendo da ogni valutazione morale dell’uomo che – per noi cristiani – spetta solo a Dio «che scruta i cuori». Ci piace, tuttavia, riportare a conclusione delle nostre riflessioni quanto ha detto la Sala Stampa della Santa Sede, subito dopo la sua morte: «L’emozione con cui l’opinione pubblica ha seguito la vicenda dolorosa di questi giorni è certamente anche segno di un sentimento umano e cristiano che, al di là di ogni considerazione o valutazione politica, è rivolto a un uomo stimato per la serietà del suo impegno e della tensione che lo animava. È il sentimento che ha mosso il Santo Padre quando, avuta notizia della grave malattia, aveva incaricato il Vescovo di Padova di esprimere il suo ricordo e la sua preghiera, anche nella grata memoria dell’interessamento premuroso avuto dall’Uomo politico quando il Papa fu degente in ospedale in seguito all’attentato. Tale stato d’animo è ugualmente vivo nel momento in cui, dopo una pro tratta agonia presto rivelatasi senza speranza, la fibra di lui ha dovuto cedere al male; esso ispira un profondo rispetto e una spontanea preghiera»[10].
Copyright © La Civiltà Cattolica 2024
Riproduzione riservata
***
[1] L’espressione più completa della «via italiana al socialismo» si trova nel documento del Comitato Centrale del PCI: Problemi del movimento operaio e socialista italiano, in Rinascita, 12 giugno 1965.
[2] Dichiarazione comune del PCI e del PCE (11 luglio 1975), in Almanacco PCI ’76, Roma, 314-315.
[3] E. BERLINGUER, Alleanze sociali e schieramenti politici, in Rinascita, 12 ottobre 1973.
[4] l’Unità, 16 febbraio 1969.
[5] Ivi, 28 febbraio 1976.
[6] E. BERLINGUER, La politica internazionale del Partito Comunista Italiano, Editori Riuniti, Roma 1976, 144.
[7] Cfr la Risoluzione della Direzione del PCI (l’Unità, 30 dicembre 1981).
[8] l’Unità, 20 settembre 1976.
[9] Ivi, 13 giugno 1984.
[10] Oss. Rom., 11-12 giugno 1984.