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Viviamo in un mondo fratturato e frammentato. I conflitti si esasperano fino ad assumere le forme di quella che il Papa chiama una «terza guerra mondiale a pezzi». I nazionalismi riaffiorano, il senso sociale pare smarrito, e il bene comune sembra essere il meno comune dei beni. Persino la globalizzazione e l’apertura al mondo celano interessi economici e finanziari e non desiderio di fratellanza. In questo mondo sovraffollato siamo soli e prevale l’individuo sulla dimensione comunitaria dell’esistenza. L’inclusione viene barattata in cambio della disponibilità a immergersi nel flusso e nelle dinamiche del consumo.
Il contesto dell’Expo ci può persino essere di aiuto nel comprendere come dobbiamo confrontarci con il mito mercatista della fratellanza capitalistica. Scrive il Papa: «Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti». La «fratellanza» – chiamiamola così – capitalista non risolve i problemi come non li risolve l’internazionalismo proletario.
Serve un’altra via d’uscita, un’altra strada. Il cuore dei credenti sente che la pace non è rendere irredimibile la subalternità del povero. Il cuore credente sente che la pace non è far scoppiare le contraddizioni del capitalismo perché il volto feroce e sanguinario armi la rivoluzione. «La fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato e che, oltre a riabilitare una politica sana non sottomessa al dettato della finanza, dobbiamo rimettere la dignità umana» (ivi).
Il cuore credente sente che la pace è risposta al grido del povero. Il desiderio di fratellanza e di «amicizia sociale» così come ce lo presenta Papa Francesco nella sua Lettera enciclica Fratelli tutti appare una via d’uscita privilegiata a questa condizione. Il realismo che attraversa le pagine stempera ogni vuoto romanticismo, sempre in agguato quando si parla di fratellanza.
La fratellanza, per Francesco, non è solamente un’emozione o un sentimento o un’idea – per quanto nobile – ma un dato di fatto. Può essere il frutto della nascita dagli stessi genitori o del riconoscimento di una comune figliolanza divina o della medesima umanità: questo dipende da ciascuno e dalla sua visione del mondo e della vita. Ma la fratellanza è sempre qualcosa da riconoscere e non un’idea astratta da applicare alla realtà. Essa esprime il riconoscimento di questo carattere strutturalmente e originariamente relazionale della condizione umana.
Nello stesso tempo la fratellanza non è esclusivamente un dato di fatto e di sangue che porta alla domanda: «Chi è mio fratello?». La fratellanza implica anche l’uscita, l’azione e la libertà: «Di chi mi faccio fratello?». Tra queste due domande si pone il messaggio di Francesco.
Occorre riscoprire la potente parola «fratellanza», che persino l’ordine post-rivoluzionario della Rivoluzione francese ha poi abbandonato fino alla sua cancellazione dal lessico politico-economico. L’appello alla fraternité – lo sappiano – non ha trovato posto nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 né nella Costituzione francese del 1791, né in quella del 1793. Bisogna attendere quella del 1848 e, dopo un lungo oblio, nel testo della Costituzione francese del 1946 e del 1958 oggi vigente. Noi l’abbiamo sostituita con quella più debole di «solidarietà». Ma, come ha scritto Francesco in un suo messaggio, «mentre la solidarietà è il principio di pianificazione sociale che permette ai diseguali di diventare eguali, la fraternità è quello che consente agli eguali di essere persone diverse. La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro essenza, dignità, libertà, e nei loro diritti fondamentali, di partecipare diversamente al bene comune secondo la loro capacità, il loro piano di vita, la loro vocazione, il loro lavoro o il loro carisma di servizio».
La fratellanza allora è un messaggio dal forte valore politico perché capovolge la logica dell’apocalisse. Questa è la logica integralista che combatte contro il mondo perché crede che esso sia l’opposto di Dio, cioè idolo, e dunque da distruggere al più presto per accelerare la fine del tempo. Il baratro dell’apocalisse, appunto, davanti al quale non ci sono più fratelli: solo apostati o martiri in corsa «contro» il tempo.
La fratellanza invece occupa il tempo, richiede il tempo. Quello del litigio e quello della riconciliazione. La fratellanza perde tempo. L’apocalisse lo brucia. La fratellanza richiede il tempo della noia. L’odio è pura eccitazione. La fratellanza è ciò che consente agli eguali di essere persone diverse. L’odio elimina il diverso. La fratellanza salva il tempo della politica, della mediazione, del compromesso, dell’incontro, della costruzione della società civile, della cura. Il fondamentalismo lo annulla in un videogame.
«Non c’è alternativa», aveva detto il Papa durante il viaggio apostolico in Egitto del 2017, in occasione della Conferenza internazionale per la pace: o la «civiltà dell’incontro» o l’«inciviltà dello scontro». Le generazioni future devono svilupparsi come alberi ben radicati nel terreno della storia che, «crescendo verso l’Alto e accanto agli altri», trasformano «l’aria inquinata dell’odio nell’ossigeno della fraternità». Per «salvaguardare la pace, – ha proseguito – abbiamo bisogno di entrare insieme, come un’unica famiglia, in un’arca che possa solcare i mari in tempesta del mondo: l’arca della fratellanza».
Voglio ricordare qui, a questo proposito, l’appello di Papa Francesco fatto a Hiroshima durante il suo viaggio apostolico in Giappone. Il 24 novembre 2019, presso il Memoriale della Pace, si è svolto un Incontro per la pace alla presenza di circa 1.300 persone. Nel buio, in un’atmosfera immersa nel silenzio, con sullo sfondo il Genbaku Dome, il Papa ha salutato 20 leader religiosi. Ecco le sue parole: «Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche». E ha proseguito, infatti: «Come possiamo parlare di pace mentre costruiamo nuove e formidabili armi di guerra?». Se avessimo una dichiarazione delle religioni su questo tema, sarebbe una svolta di speranza.
Proprio a Hiroshima il Papa ha ricordato un incontro e un documento importante, firmato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi. Lì Francesco e Aḥmad al-Tayyeb, il Grande Imam di al-Azhar, hanno firmato uno storico documento sulla fratellanza. I due leader si sono riconosciuti fratelli e hanno provato a dare insieme uno sguardo sul mondo d’oggi. E che cosa hanno capito? Che l’unica vera alternativa che sfida e argina la soluzione apocalittica è la fratellanza. E così – davanti a una situazione mondiale «dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi» – hanno cominciato a parlare non solamente in nome di Dio, ma anche in nome di poveri, orfani, vedove, cioè di coloro la cui soggettività appare mutilata o persa. Il Papa e l’Imam hanno cominciato a parlare di tutti come fratelli e a strappare cristiani e musulmani dal bordo del baratro.
Il riconoscimento della fratellanza cambia la prospettiva, la capovolge e diventa un forte messaggio dal valore politico: tutti siamo fratelli, e quindi tutti siamo cittadini con uguali diritti e doveri, sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. E del tempo che ci è dato di vivere. La cittadinanza, infatti, è uno dei temi fondamentali di questa Enciclica. A ben pensarci, nella fraternità tutti i soggetti vivono un rapporto paritetico: nessuno è ospite dell’altro, e nessuno può vantare pretese esclusive o monopoli usufruttuari sulla casa genitoriale, ma tutti vi partecipano in egual misura.
Prendiamo spunto da Caino. Il libro della Genesi (Gen 4,17) ci dice che «Caino conobbe sua moglie, che concepì e partorì Enoc; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoc, dal nome del figlio». Nel XV libro dell’opera De civitate Dei Agostino di Ippona ha proprio stabilito un confronto tra la coppia dei fratelli Caino e Abele e quella di Romolo e Remo. Caino e Romolo, entrambi fratricidi, sono stati i fondatori di due città: Enoc e Roma. L’uomo che rifiuta la fraternità diventa «fondatore di città», che sono luoghi di fratellanza. La fondazione della città, da parte di uno condannato a essere ramingo e fuggiasco, risulta davvero anomala e ci fa riflettere.
E non è un caso che la sura Al-Mâ’ida, che racconta di Caino, finisce citando il Talmud. Leggiamola: «La sua passione lo spinse ad uccidere il fratello. Lo uccise e divenne uno di coloro che si sono perduti. Poi Allah gli inviò un corvo che si mise a scavare la terra per mostrargli come nascondere il cadavere di suo fratello. Disse: “Guai a me! Sono incapace di essere come questo corvo, sì da nascondere la spoglia di mio fratello?”. E così fu uno di quelli afflitti dai rimorsi. Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità». Possiamo discernere, dunque, una splendida visione della fratellanza umana, che la lega alla polis.
Concretamente nell’ambito della polis si può esperire la condizione della cittadinanza dove nessuno è ospite e, viceversa, nessuno è padrone di casa, ma tutti sono ricondotti alle stesse responsabilità e agli stessi diritti. Essere concittadini significa potersi esercitare in una convivenza reciproca senza recriminazioni e senza rivendicazioni monopoliste. Essere concittadini ci permette di fare «esercizi di fraternità»: essi si esplicano nei confronti della casa comune nella quale viviamo, e, dunque, ci collocano nella dimensione di una convivenza responsabile.
Soprattutto, come ha detto Francesco nel suo viaggio apostolico in Marocco, «il consolidamento di una vera pace passa attraverso la ricerca della giustizia sociale, indispensabile per correggere gli squilibri economici e i disordini politici che sono sempre stati fattori principali di tensione e di minaccia per l’intera umanità». Più volte il Pontefice ha poi lamentato il fatto che la politica sia sottomessa all’economia, e questa al paradigma efficientista della tecnocrazia. Al contrario, è la politica che deve avere una visione ampia in modo che l’economia sia integrata in un progetto politico, sociale, culturale e popolare che tenda al bene comune. Francesco si muove nel quadro di una certezza della destinazione comune dei beni della terra. È nell’ingiustizia che si trovano i semi dei conflitti.
Ricordo brevemente lo storico viaggio apostolico di Francesco in Iraq, permeato dalla Fratelli tutti. Nel suo discorso alla società civile composta da un mosaico di identità e appartenenze potenzialmente conflittuali, ha indicato con chiarezza una strada per costruire una società civile irachena sana: la cittadinanza. «Si dia spazio – ha detto Francesco in quella occasione – a tutti i cittadini che vogliono costruire insieme questo Paese, nel dialogo, nel confronto franco e sincero, costruttivo. A chi si impegna per la riconciliazione e, per il bene comune, è disposto a mettere da parte i propri interessi. In questi anni l’Iraq ha cercato di mettere le basi per una società democratica. È indispensabile in tal senso assicurare la partecipazione di tutti i gruppi politici, sociali e religiosi e garantire i diritti fondamentali di tutti i cittadini. Nessuno sia considerato cittadino di seconda classe».
In Iraq, il Papa si è recato a Hosh al-Bieaa, la piazza delle 4 chiese (siro-cattolica, armeno-ortodossa, siro-ortodossa e caldea), distrutte tra il 2014 e il 2017 dagli attacchi terroristici. Qui si è svolta una preghiera di suffragio per le vittime della guerra, accompagnata da testimonianze. Nel suo saluto prima della preghiera Francesco ha sottolineato le parole di una testimonianza ascoltata, la quale affermava che «la vera identità di questa città è quella della convivenza armoniosa tra persone di origini e culture diverse». Da qui la convinzione che «la fraternità è più forte del fratricidio». Queste parole ci richiamano ancora una volta l’esperienza di Caino.
E ricordo pure che – durante la sua visita in terra irachena – il Papa è andato alla Residenza del Grand Ayatollah Al-Sistani che si trova all’interno della Moschea dell’Imām ʿAlī a Najaf, percorrendo a piedi le viuzze per accedervi. Al-Sistani è stato discepolo dell’ayatollah Al-Khoei. In una recente intervista Sayyed Jawad Mohammed Taqi Al-Khoei – segretario generale dell’Istituto Al-Khoei di Najaf e della famiglia del maestro di Al-Sistani – ha ricordato un famoso detto dell’Imām ʿAlī: «Le persone sono di due tipi: o sono tuoi fratelli nella fede o tuoi simili nell’umanità».
La visita di Papa Francesco in Iraq ha acceso i fari su Najaf, «città santa» sciita, e ha aperto una prospettiva tutta nuova, epocale anche a favore del dialogo intra-islamico. Ha, infatti, riportato a galla la teologia non teocratica sciita e ha proposto l’attualità di Abramo, il patriarca comune ai tre monoteismi, nella riconciliazione. L’incontro tra Francesco e Al-Sistani è durato circa 45 minuti e i due leader – così come hanno riferito i rispettivi comunicati – hanno parlato dell’importanza della collaborazione fra le comunità religiose e del consolidamento dei valori di armonia, coesistenza pacifica e solidarietà umana, basati sulla promozione dei diritti e del rispetto reciproco tra i seguaci di diverse religioni e tendenze intellettuali. E questo perché si possa contribuire al bene del Paese e dell’intera umanità. Mohammad Ali Abtahi, vicepresidente durante la presidenza Mohammad Khatami, in un tweet ha definito l’incontro «una delle svolte storiche delle religioni divine».
Ricordo che nel 2017 Francesco, ricevendo in udienza le Sovraintendenze irachene per sciiti, sunniti, cristiani, yazidi, sabei/mandei disse: «abbiamo un padre comune sulla terra: Abramo, e da quella prima “uscita” di Abramo, noi veniamo, fino ad oggi, tutti insieme. Noi siamo fratelli e, come fratelli, tutti diversi e tutti uguali, come le dita di una mano: cinque sono le dita, tutte dita, ma tutte diverse».
Infatti, proprio ad Ur, la città di Abramo, è stato realizzato un incontro interreligioso con letture dalla Bibbia e dal Corano e l’ascolto di testimonianze. La piana assolata e desertica con lo ziggurat sullo sfondo e gli antichi scavi hanno fatto da scenario a un evento di grande intensità spiritualità. Il Papa ha tenuto un discorso e ha recitato con gli altri la Preghiera dei figli di Abramo. «Qui, dove visse Abramo nostro padre, – ha detto – ci sembra di tornare a casa. […] Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cielo e di contarvi le stelle (cfr Gen 15,5). In quelle stelle vide la promessa della sua discendenza, vide noi. E oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo facendo come lui: guardiamo il cielo e camminiamo sulla terra».
Questo «guardare il cielo» dove «le stelle brillano insieme» significa percepire un «messaggio di unità»: «l’Altissimo sopra di noi ci invita a non separarci mai dal fratello che sta accanto a noi. L’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello». Ma c’è anche un invito a «camminare sulla terra», dopo aver guardato il cielo. Abramo diventa modello di una società, di un modo di fare politica, di impegno per ricostruire un Paese. È un invito a «lasciare quei legami e attaccamenti» che ci chiudono nei «nostri gruppi» e ci impediscono «di vedere negli altri dei fratelli». Occorre «rinunciare ad avere nemici», ha affermato il Papa. Insomma, Ur non è più soltanto un simbolo del passato, ma il cantiere del futuro. Questo è connecting souls.
Questa visione – e tale è, di fatto – richiede un cambio di prospettiva radicale non solo a livello interpersonale o statale, ma anche nelle relazioni internazionali. Il Papa è chiarissimo nel suo appello all’importanza del multilateralismo nell’affrontare i temi caldi e le situazioni di crisi. Non bastano, dunque, più forme di bilateralismo per cui Paesi potenti preferiscono trattare con altri Paesi più piccoli o poveri, per trarne maggior profitto. Francesco auspica che si raggiungano, ad esempio «accordi regionali», che permettano ai Paesi «di trattare in blocco ed evitare di diventare segmenti marginali e dipendenti dalle grandi potenze».
Così il presidente del Congresso Ebraico Mondiale, Ronald S. Lauder, ha commentato il Documento sulla Fraternità Universale: «Dobbiamo cercare di costruire un mondo nuovo, fondato su collaborazione, umiltà e dignità. Non dobbiamo lasciare che le nuove opportunità ci portino a erigere un’altra torre di Babele. Non dobbiamo permettere a noi stessi di infliggere all’umanità un altro diluvio universale».
Davvero così si misura la vera qualità di un Paese: valutando la capacità di pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana. Francesco esprime, in realtà, la richiesta di una profonda revisione del programma politico mondiale. Questo non può che essere frutto di un ampio connecting souls. La fratellanza, intesa nel suo senso più profondo «è un modo di fare la storia». E a questo noi tutti qui presenti siamo chiamati.