Alta densità di Sicilia in Stranizza d’amuri, il film che inaugura l’attività di Beppe Fiorello come regista. Racconta la storia d’amore tra due adolescenti, ispirata da un fatto di cronaca dei primi anni Ottanta: l’omicidio a Giarre di due ragazzi omosessuali. Fiorello descrive la vicenda con la riverenza che si ha di fronte al sacro: quello dell’amore e dell’adolescenza secondo le parole dello stesso regista; ma anche quel sacro della sua Sicilia che, dopo anni di gestazione, decide di raccontare con il dialetto dell’isola e con citazioni musicali di un siciliano doc, Franco Battiato. Intorno alla storia dei due ragazzi siamo guidati a scorgere vari strati di Sicilia.
Lo strato minerale: quello dei paesaggi arsi dall’estate ‒ dove non si raccoglie, ma si caccia –, di una cava di pietra caldamente candida, e quello della polvere dolcemente acre dei fuochi d’artificio. All’altro estremo, lo strato liquido: quello dell’azzurro smeraldo del mare e dell’eccesso di sugo sulla tavola. E vari strati umani attorno alla storia d’amore.
Le due famiglie – agli antipodi – dei protagonisti: la famiglia tradizionale allargata di Nino e quella di Gianni, con la madre abbandonata dal marito e con un amante violento, ma in entrambe maschi e femmine rispettano in modo ortodosso il ruolo di padri-padroni e madri-serve. Poi i ragazzi del paese, oziosi nella loro goliardia che maschera i pur presenti accenni di ambiguità sessuale, e gli operai della cava, eccessivamente impolverati per riscattarne le personalità. Forse ne emerge una troppo netta stratificazione umana della Sicilia dei primi anni Ottanta, che monoliticamente non comprende quell’amore.
In questa storia le città sono lontane, la sociologia è quella del «piccolo paese», dove la vita sembra girare attorno all’unico bar, alle feste patronali e ai Mondiali di calcio del 1982. Un’umanità ruvida di lavoro, bruciata dal sole, e dai vestiti forse troppo sgualciti. Con violenza questo mondo si protegge dall’amore puro dell’adolescenza, lo deride e bastona. Anche l’unica preghiera che vi risuona, il «Padre nostro» di un nero prete, non accarezzerà come balsamo le ferite.
Fiorello riesce ad accendere la poesia attorno al fatto di cronaca che ispira il film. Da siciliano, si è dato tutto per descrivere la sua terra ‒ qualche eccesso di retorica è perdonato dalla passione con cui lo fa –, e con coraggio si espone a trattare il tema dell’omofobia, ancora vivo e attuale nei tanti «paesi» che ognuno si porta dentro.