
C’è un sacro minore, disegnato sul rovescio della trama della storia, fatto di fotogrammi, volti e gesti appena sbiaditi. Ma c’è, innanzitutto, una poesia che nomina coraggiosamente questo sacro e che s’accende all’improvviso, sfregando le une contro le altre parole di tutti i giorni, come radiografia, tavolino, finestra, grano, infanzia, formica, servendosi del loro naturale attrito.
Sacro minore (Einaudi, 2023) è l’ultima folgorante raccolta di poesie di Franco Arminio, un cofanetto di pillole salmodiche, tutte dedicate alle molte forme del sacro contemporaneo, il divino possibile smembrato e disseminato nei brandelli di vita fotografati dal ricordo e dal verso.
Da tempo osservatore attento e narratore sensibile di una Geografia commossa dell’Italia interna (Mondadori, 2013), autore dell’Appennino per nascita e per scelta, «paesologo» per vocazione, Arminio vive e racconta il contemporaneo dalla sua Bisaccia. Anche in Sacro minore, l’Irpinia d’Oriente continua a essere, forse per un inconfessato e biografico correlativo oggettivo, forma e materia della sua poetica: paesi, contadini, donne, vicoli, ombrelli, pecore, pascoli, case, cani, ma anche neve, nebbia e vento popolano le pagine di una solenne e umile epopea della resilienza, che non sa distinguere tra uomini, piante, pietre o animali, perché tutto appartiene alla terra, e perciò tutto è sacro.
Anche in quest’ultima raccolta di Arminio colpisce la sfrontata e insieme malinconica e incondizionata resa alla vita. Post-moderno e reazionario, intimista e arcaico – come un vecchio contadino –, l’autore si rivela religioso oltre le intenzioni, nel momento in cui indica, proprio attraverso la carne della parola, quell’oltre apparentemente inaccessibile che i corpi continuamente tradiscono sotto la pelle del loro incessante biologico pulsare ed esistere, toccarsi, ammalarsi, amare, lottare, e finanche soffrire o morire.
In ogni modo fedele a una personalissima quanto istintiva teologia della terra, che si perde nel passato della sua infanzia di paese per riapparire in modo carsico nel presente commosso della sua maturità di scrittore, Arminio insegna a pregare senza credere, percorrendo ancora una volta quel sentiero di confine che separa e unisce l’orizzonte del reale e quello del possibile, il sacro dell’aldilà e il profano dell’aldiquà, la memoria e l’oggi, il trascendente e le sue infinite incarnazioni. Ed è questa regione liminale dello sguardo che traccia tempi, modi e confini di quella singolare forma di preghiera che è la poesia. Perché «sacro non è raccontare / ciò che sai / ma quello che ti commuove / e non sai perché».