Riportato alla ribalta dall’omonima fiction tv della Rai, La Storia di Elsa Morante – pubblicato per la prima volta 50 anni fa – è ambientato a Roma tra la Seconda Guerra Mondiale e l’immediato dopoguerra. La Morante rivisita la grande Storia di quegli anni attraverso la piccola storia di Ida Raimundo, che mette al mondo una delle creature più belle e luminose della letteratura di tutti i tempi, il piccolo Useppe.
Ancora bambino, Useppe si lancia in un viaggio appassionato dentro se stesso. Prima tra le mura di casa, dove è costretto a passare intere giornate mentre la madre è a scuola per lavoro e dove la sua immaginazione si dilata «nelle sterminate esplorazioni che faceva, camminando a quattro zampe, intorno agli Urali, e alle Amazonie, e agli Arcipelaghi Australiani, che erano per lui i mobili di casa»; poi dentro un rifugio, in una convivenza malsana con numerosi altri poveracci in cerca di salvezza; e infine in una misteriosa radura sul Tevere, dove farà incontri inaspettati e vivrà esperienze sulla soglia tra l’immaginazione e l’estasi.
Per questo bambino, il divario tra sacro e profano si dissolve e l’intero universo sembra farsi trasparenza del Divino. Come la «tenda d’alberi in riva all’acqua», dove si reca ogni giorno con il suo cane, oppure quando lo si sorprende a giocare con i resti di sputo sulle pareti del cortile o con la corazza degli scarafaggi, convinto di rincorrere, in questi rimasugli d’esistenza, una stella: una ttella dentro una lampadina rotta, dentro una mosca sulla finestra, un’altra dentro un mazzo di cipolle sospese al soffitto o un vaso di fiori appassiti sulla tavola.
Quali occhi possono trasfigurare così la realtà, se non gli occhi di un poeta? La grande Storia, vissuta da un bambino come “possibilità” fra le pareti anguste di un paese in guerra o dentro un minuscolo appartamento suburbano, diventa così un’opportunità per affinare lo sguardo, allenato a riconoscere il cuore della realtà anche nei suoi risvolti sfigurati, in una rinnovata comunione con gli altri e con la natura.