Ambientato negli anni Ottanta in un borgo immaginario, il film La Chimera racconta di un gruppo di tombaroli che sbarca il lunario rivendendo manufatti archeologici etruschi a un mecenate, Spartaco, che nessuno ha mai visto. La mente è l’enigmatico «inglese» Arthur, un archeologo sensitivo che ha fatto di questa vocazione ragione e misura dei suoi giorni.
L’ultimo lungometraggio di Alice Rohrwacher, uscito nelle sale italiane nel novembre 2023, inquieta con commozione, trasportando lo spettatore sul confine degli eventi, tra realtà e mito. La linearità apparente dei fatti e dei personaggi presto svela, al fondo della trama, un andamento onirico che riflette – attraverso la stilizzazione dei caratteri e la disattivazione delle consuete soluzioni narrative – una domanda cocente sul tempo e sulla forza (e natura) dei legami.
L’opera si sviluppa sulla tensione che vede contrapporsi la cinica professionalità dei suoi sodali alla struggente e inconfessata adorazione di Arthur per queste tracce di vita oltremondana, che si manifesta come un oscuro male fisico e che è insieme lacerazione e vuoto dell’anima: la perdita della donna amata, Beniamina, è la cifra di un’esistenza grama e incompiuta che cerca tra le ombre del passato un varco di luce verso un altrove.
La catabasi del protagonista, senza colpa e senza redenzione, si spinge giù nell’abisso, tra l’indifferenza di chi non sa e non può riconoscere in quel regno di fantasmi e relitti gli sfregi segnaletici di un destino che alla fine per tutti avrà la forma beffarda e inaggirabile della scelta tra restare e fuggire. In ogni lutto, come nel mito di Orfeo ed Euridice, passato e presente, vita e morte si contendono la possibilità di essere ancora di nuovo felici.
L’accesso segreto e iniziatico al film, che lo spettatore è chiamato a trovare, è nel titolo: la chimera, il mostro mitologico che significa anche (o soprattutto) l’utopia e l’illusione, è il centro inafferrabile cui le vicende – talvolta rocambolesche, infine drammatiche – costantemente alludono; chimera, cioè, è la ricerca febbrile del denaro e la sciocca brama di possesso da parte di Spartaco e dei tombaroli, ma è anche il gesto, profetico e assurdo, con cui l’inglese riconduce tutti fatalmente alla verità delle cose, cioè che felice davvero è chi sa di non poter trattenere né il tempo, né l’amore.
Perciò nessuna Spannung salvifica né giudizio finale, che si offrano appunto come passaggio e liberazione, attendono Arthur negli ultimi fotogrammi, ma soltanto un ultimo sguardo, come quello degli àuguri, levato verso l’alto nel cielo, là dove gli uccelli insegnano agli uomini le traiettorie imprevedibili della libertà.