Incassi altissimi, cast stellare e plauso della critica: Barbie è un vero fenomeno, una «bambola» che parla a tutti. I limiti della narrazione non mancano: è davvero così difficile essere donne, e gli uomini sono così cattivi? L’unica maniera di trovarsi è con la ricerca solitaria della felicità? Domande giustificate. Ma in questo film, diretto da Greta Gerwig, la scenografia è simbolo della narrazione: i colori artificiali – che prevedono sfumature – sono proprio quelli usati nel dipingere la trama. Barbie rimane comunque un gioco. Ma, come tutti i buoni giochi, ci fa pensare.
Essa è un’icona femminista o maschilista? È emblema di capitalismo e consumismo, della donna sessualizzata e plastificata; d’altra parte, i fotogrammi iniziali mostrano come, per la prima volta, essa rappresenti una femminilità non relegata all’ambito casalingo-materno. Forse entrambe le accezioni sono vere e le bambine vanno deprogrammate dalle esagerazioni.
Questo film non può però essere etichettato (anche in maniera dispregiativa) come una pellicola da donne: la trama parla anche degli uomini, dei modelli di mascolinità, di cosa significa davvero fit-in, in un racconto in cui pure Ken cerca sé stesso, relegato com’è a uno degli accessori di Barbie.
Può essere un dramma scegliere scarpe col tacco o Birkenstock? Ebbene sì: il film ci costringe a pensare al realismo e all’idealismo della nostra cultura e dell’autopercezione, davanti a una protagonista, che vuole essere una ragazza normale, e a noi che vogliamo diventare esseri umani perfetti (stereotipi) per non finire fuori produzione. Insomma, nostro malgrado, dobbiamo tutti chiederci che tipo di Barbie e Ken siamo chiamati a essere.