a cura di V. FANTUZZI
Quattro mesi, tre settimane, due giorni (Romania, 2007). Regista: CRISTIAN MUNGIU. Interpreti principali: A. Marinca, L. Vasiliu, V. Ivanov.
Due ragazze poco più che ventenni (Otilia, interpretata da Anamaria Marinca, e Gabita, interpretata da Laura Vasiliu), compagne di università, condividono la stessa stanza in una residenza per studenti. Gabita è incinta e vuole abortire. Il titolo del film indica il tempo trascorso della indesiderata gravidanza. Otilia la aiuta a condurre a termine il non facile intento. Siamo in una piccola città della Romania ai tempi di Ceausescu. Il regime punisce con pene severe l’aborto. L’interruzione clandestina della gravidanza è pratica diffusa, ma ogni singolo caso deve essere gestito con precauzione. All’inizio del film vediamo le ragazze nella loro stanza mentre Gabita prepara la valigia. L’aborto avverrà in una stanza d’albergo.
C. Mungiu, regista di Quattro mesi, tre settimane, due giorni, palma d’oro come miglior film al festival di Cannes la scorsa primavera, dice di essersi ispirato a un fatto accaduto a una sua coetanea negli anni in cui frequentava l’università. Parlandone con gli amici, durante la preparazione del film, ha capito che tutti avevano una storia personale dello stesso genere da condividere. «Ero sorpreso nello scoprire quanto queste storie siano comuni e tenute nascoste», ha scritto in una nota di regia. Queste indicazioni non sono entrate a far parte della materia esposta nel film, ma hanno aiutato l’autore a comprendere quanto il fenomeno fosse diffuso.
Il film segue passo dopo passo i movimenti di Otilia, la quale, essendosi addossata la responsabilità di organizzare l’intervento, deve affrontare contrattempi e malintesi muo-vendosi in un ambiente, reso opprimente dalla mancanza di libertà, che alimenta reciproci sospetti e spinge coloro che esercitano un sia pur minimo potere ad approfittare con arroganza della propria posizione. Il controllo dei documenti da parte del personale d’albergo è assillante. Ogni favore deve essere pagato seduta stante. «Un pacchetto di sigarette Kent — dice il regista — era più importante dei soldi che avevi sborsato per averlo. Senza di esso non riuscivi a concludere nulla».
Il film, servendosi di mezzi sobri e incisivi, rende con esattezza il clima di quell’epoca. Particolarmente accurato è lo stile, che impone agli interpreti una recitazione allo stesso tempo naturale e precisa. Gli ambienti non sono ricostruiti in studio, ma ripresi dal vero. «Degli ambienti — dice ancora Mungiu — mi piace far vedere tutto —. La maggior parte delle riprese del film mostra l’ambiente a 180, 270 e perfino a 360 gradi. Ci sono scene nelle quali la cinepresa segue l’attore per oltre cento metri, cominciando dalla strada per finire in un appartamento».
L’uomo incaricato di eseguire l’intervento è un certo signor Bebe (Vlad Ivanov), non si sa bene se infermiere o inserviente, il quale, non contento del denaro che le due sono riuscite a racimolare, esige da entrambe un compenso in natura. Quando meno te lo aspetti la macchina da presa, che fino a quel momento aveva esplorato lo spazio con movimenti orizzontali e in profondità, cala verso il basso per inquadrare il feto sanguinolento espulso e lasciato sul pavimento del bagno. Qualche critico ha rimproverato al regista la sgradevolezza di questa immagine. «Per essere onesto fino in fondo dovevo farlo — ha risposto Mungiu —. Non si parla infatti di qualcosa di astratto, ma di un essere umano. Anche a costo di trasgredire alle regole del buon gusto ero tenuto al massimo realismo».
Le due giovani affrontano una situazione nei confronti della quale non hanno nessuna esperienza. Ma, mentre Gabita appare stordita e come paralizzata dalla paura di fronte a un evento che la sconvolge, Otilia conserva una piena lucidità in ogni momento, perfino in quelli più drammatici. Sulle sue spalle ricade il peso maggiore della vicenda, che gestisce da autentica protagonista, così come nell’intesa perfetta tra l’interprete e il regista risiede il motivo principale della riuscita del film. Si vedano i lunghi primi piani della Marinca, quando la macchina da presa sottopone il suo volto a una sorta di analisi da laboratorio per scrutarne i sentimenti e rendere quasi palpabile l’angosciosa solitudine nella quale è costretta a fare i conti con le proprie responsabilità.
Nelle scene di maggiore concitazione, quando Otilia vaga nella notte da un punto all’altro della città inseguita dal latrato dei cani, ci sono momenti nei quali lo schermo è interamente nero. Con il suo modo diretto di procedere il film non elude gli interrogativi che, di fronte a fatti così atroci, si levano dalla coscienza di chi li compie. La forza espressiva del cinema fa sì che tali interrogativi, prima ancora che le facoltà raziocinanti aiutino a trarne le conclusioni, rimbalzino dall’intimo del personaggio a quello dello spettatore.